Dante e il tema medievale del viaggio, dai pellegrinaggi a quello mentale CULTURA PRIMO PIANO di Giuseppe Gargano Scritto lunedì, 1 Febbraio, 2021 19:39 Dopo la pubblicazione di “Dante a sette secoli dalla morte, Gargano commenta la Commedia“, continua la raccolta di articoli che fanno parte dei pensieri sulla Commedia di Dante Alighieri “De Comedia Dantis cogitationes” scritta dallo storico medievalista e astronomo, Giuseppe Gargano, in occasione della ricorrenza del VII centenario della morte del Sommo Poeta. Il Medioevo fu un secolo dinamico sia sotto il profilo delle invenzioni e delle scoperte sia per quanto riguarda gli spostamenti nello spazio. Così il viaggio era un tema caratteristico dell’età di mezzo, rappresentato dalla navigazione mercantile, in special modo delle repubbliche marinare, dal pellegrinaggio religioso, diretto principalmente a Gerusalemme, a Roma, a S. Michele Arcangelo sul Gargano, a S. Iacopo de Compostela in Galizia, dal pellegrinaggio armato, cioè la crociata. Tra questi viaggi fisici e reali va a innestarsi anche quello metafisico effettuato dalla mente dantesca e sostenuto dalla tradizione dell’immaginario collettivo. A tal proposito poniamo a confronto i secondi canti delle tre cantiche analizzati in parallelo. II canto dell’Inferno: viaggio al centro della Terra La cosmogonia dantesca considera la Terra sferica ferma al centro dell’universo, intorno alla quale ruotano la Luna, il Sole, cinque pianeti e il cielo delle stelle fisse. La geografia dantesca colloca nell’emisfero boreale la concentrazione delle terre emerse, a guisa di Pangea, dove vivono gli uomini, e nell’emisfero australe l’oceano con la montagna del Purgatorio, un bubbone prodotto dallo sprofondamento di Lucifero a seguito della sua ribellione contro Dio; il suo corpo gigantesco, sprofondando sulla Terra e ruotando intorno a se stesso, la trapanò in profondità, creando l’Inferno a forma di imbuto. Questa è la prima sperimentazione dantesca di connubio tra fisica e metafisica, la lettura della realtà compiuta del mondo in un accordo tra scienza e fede. Così cammino fisico e pietade spirituale restano nella mente del poeta, pronta, con l’aiuto delle Muse, ispirazione classica senza tempo, a ricordare l’avventura in tutti i particolari. La geografia della Divina Commedia Dante si rende conto di aver ricevuto un privilegio divino, essendo egli il terzo vivo a viaggiare nell’aldilà. Il primo era stato Enea, dal cui figlio sarebbe nata la Romanità intesa come fusione tra latini e troiani. L’epica classica aveva già presentato un caso di viaggio nell’oltretomba: Omero nell’Odissea descrive la visita di Ulisse nel regno sotterraneo. Egli incontra Achille, che vede in tutto il suo splendore, per cui lo riverisce, ammirato:” Achille, anche qui sei il re dei morti!“. Il Pelìde gli risponde mesto: “Meglio essere l’ultimo dei vivi che il re dei morti!“. Così nell’immaginario greco la morte rappresenta la fine di tutte le gioie e le felicità della vita. Enea, invece, va nei Campi Elisi, dove, a differenza dell’Erebo, le anime dei grandi vivono beate. Suo padre Anchise gli mostra il futuro, attraverso i grandi romani, che deriveranno proprio dal suo avvento nel Lazio. Diversa è la vicenda di Ulisse; quando incontra l’ombra di Agamennone, questa gli fornisce indicazioni sul presente, raccomandando al Laerziade di tornare in patria come uno straniero sconosciuto e di non rivelarsi nemmeno a sua moglie Penelope, in considerazione del fatto che egli fu ucciso nel bagno dalla consorte Clitennestra e dal cugino Egisto. Così le anime omeriche conoscevano solo il presente, invece quelle virgiliane avevano una visione chiara del futuro. Queste avevano la facoltà di conoscere il Fato immutabile. Paolo di Tarso fu il secondo viaggiatore dell’aldilà. Egli racconta che, per un effetto misterioso, sarebbe stato rapito e condotto fino al terzo cielo (di Venere). Dante lo definisce Vas d’elezione (negli Atti degli Apostoli vas electionis), considerandolo come un vascello scelto per una navigazione nello spazio e nel tempo. Infatti Paolo navigò nel Mediterraneo, rischiando di perdere la vita in un naufragio, fino a giungere a Roma, dove trovò il martirio al tempo di Nerone. Paolo di Tarso mentre predica all’areopago di Atene Anche Cristo, dopo la morte in croce e prima della resurrezione, andò negli Inferi, dove raccolse, nel Limbo, le anime dei profeti d’Israele, che lo avevano preannunciato ma non conosciuto, e le condusse in Paradiso. E Virgilio racconta un altro viaggio, questa volta di una donna, dai cieli paradisiaci al Limbo. Si tratta di Beatrice, la donna-angelo della Vita Nuova amata da Dante e scomparsa nel 1290 all’età di ventiquattro anni. Corrisponderebbe, nella realtà fisica, a colei che il poeta colloca in sul numero delle trenta donne più belle di Firenze nel sonetto Guido i’ vorrei che tu e Lapo e io; pertanto, ella non doveva essere poi una bellezza angelica. II canto del Purgatorio: l’idrovolante angelico Arrampicandosi sui folti peli di Lucifero, Dante e Virgilio, districandosi nel cunicolo della Burella, si trovano alfine dall’altra parte della Terra, sulla spiaggia del Purgatorio. E qui la memoria del poeta toscano riporta annotazioni astronomicheche si riveleranno utili per la fissazione della data del viaggio, come vedremo in un prossimo paragrafo. E’ il momento di esprimere la sua tesi astronomica, che ritiene la Terra una sfera e il Sole che le ruota intorno in un moto giornaliero, descrivendo nell’anno il cerchio dell’eclittica rispetto alle costellazioni dello Zodiaco, mentre lentamente si muove il cielo delle stelle fisse. Il Sole è all’orizzonte nella montagna del Purgatorio, mentre è allo zenith a Gerusalemme ed è già tramontato alla foce del Gange, dove la notte cala insieme alla costellazione della Bilancia, nella quale, quando la nostra stella entra (equinozio d’autunno), la notte comincia a superare il dì. Montando il Sole attraverso la bassa latitudine, laddove nella curvatura del cielo appena sull’orizzonte dello spettro solare passa solo il rosso che sfuma nell’arancio, si rischiara l’oriente. All’opposto del cielo, verso ponente, il pianeta Marte sta calando al tramonto, in opposizione a Venere, la cui intensa luce bianca sembra rallegrare le stelle della costellazione dei Pesci, mentre anticipa il sorgere del Sole. Se Dante avesse saputo che quel bianco lucore è dovuto alla riflessione dei raggi solari da parte di spesse nubi di anidride carbonica, che producono sulla superficie del pianeta un tremendo effetto serra che fa lievitare la temperatura fino a 480°C, associato a un’insistente pioggerellina di acido solforico, lì avrebbe stabilito la sede dell’Inferno. Molti commentatori, carenti di conoscenze astronomiche, hanno voluto spiegare il verso per li grossi vapor Marte rosseggia con il fenomeno dell’arrossamento degli astri calanti o uscenti dal filtro rosso naturale della bassa latitudine. Questa spiegazione non si adatta a Marte, poiché il pianeta è rosso di per se stesso. Pertanto, riteniamo che il poeta abbia piuttosto avanzato una sua proposta di natura astrofisica planetaria: ritiene, cioè, che il rosso di Marte sarebbe dovuto ai vapori della sua atmosfera. Oggi sappiamo che quella colorazione deriva dalle sabbie della superficie del pianeta, ricche di ossido di ferro. Ad un tratto appare sull’orizzonte marino una luce bianca in rapido movimento, che si avvicina sempre di più. Gradualmente Dante mette a fuoco l’immagine e, con l’aiuto della sua guida, vede l’angelo di Dio che a colpi d’ala ha condotto il suo vascello colmo di anime prive di peso dalla foce del Tevere alla spiaggia del Purgatorio. L’imbarcazione vola a fior d’acqua come un idrovolante o un aliscafo. Diversamente Caronte trasporta i dannati sul fiume infernale spingendo a forza la barca e faticando col remo. Mentre le anime purganti sbarcano cantando il primo verso del Salmo 113, che ricorda la liberazione del popolo di Israele dalla cattività egiziana, son trascorse due ore dal sorgere del Sole: Dante, formato all’insegnamento astronomico che fu di Gerbert d’Aurillac e di Lorenzo d’Amalfi, calcola l’ora tenendo presente la distanza celeste di 90° tra l’Ariete, dov’è il Sole, e il Capricorno, che nella longitudine astronomica corrisponde a 6 ore, cioè ¼ dell’intera rotazione terrestre. Lì Dante fa un felice incontro: tra le anime appena giunte vi è quella di Casella, colui che ha musicato le sue liriche. Ha atteso tre mesi prima che l’angelo lo caricasse sul vascello alla foce del fiume di Roma, capitale dell’impero e del papato, dove il pontefice Silvestro II, monaco-scienziato di Cluny, al secolo Gerbert d’Aurillac, aveva tentato, allo scorrere del X secolo, di ripristinare la sede imperiale, conducendovi il giovane imperatore Ottone III, possibile candidato per la riunificazione della Romanità occidentale con quella orientale, dato che era figlio di Ottone II e della principessa bizantina Teofano. Così tutti insieme intonano Amor che ne la mente mi ragiona, il primo verso della II canzone edita nel Convivio (III) e dedicata all’amore per la filosofia. Il canto fa riapparire Catone l’Uticense, il quale, corrucciato, li richiama e li invita a salire attraverso il monte. Ma tutte le anime scappano sull’opposta costa. Casella, il musico e cantore toscano appare al Poeta e a Virgilio nel secondo Canto della seconda cantica, dove è collocato tra le anime dei penitenti II canto del Paradiso: l’ascensione antigravitazionale Al fine di descrivere l’ascesa ai cieli che ruotano intorno alla Terra in maniera da conciliare fisica e metafisica, scienza e fede, il poeta mette in campo un’interessante similitudine marinaresca. Egli considera i suoi lettori marinai su di una piccola barca che segue la rotta del suo legno, che non è metonimia di nave, bensì un tipo di nave, il lignum usato dai genovesi. Quindi li invita a non affrontare la navigazione in mare aperto (pelago), ma a seguire la sua rotta. La sua è una navigazione astrale, alla stregua di quelli che saranno secoli dopo gli astronauti americani o i cosmonauti russi. La correlazione tra la navigazione marittima e quella celeste è stata chiaramente sottolineata dalla partecipazione dei capitani di marina tra gli astronauti americani delle missioni Gemini e Apollo. L’ufficiale di marina Jim Lovell può essere considerato un eroe dantesco, che, grazie ai valori umani e alla sua esperienza, riportò in salvo il suo equipaggio dopo il fallimento della missione Apollo 13. Allora l’intelligenza umana, creata a somiglianza del genio divino, dimostrò la sua superiorità sulla macchina, a dispetto dell’affermazione sovietica che considerava la sonda automatica sbarcata sulla superficie lunare superiore all’uomo, un’affermazione che aveva tanto il sapore della celebre favola della volpe e dell’uva. James Arthur Lovell Jr., detto Jim (Cleveland, 25 marzo 1928), è stato un astronauta statunitense della NASA. Dante è già in ascesa oltre l’atmosfera della Terra, avendo superato la sfera del fuoco, dove, secondo gli antichi, si sarebbero verificati il fenomeno delle stelle cadenti e l’apparizione delle comete. Infatti essi credevano che le stelle cadenti fossero frammenti infuocati che piovevano dal cielo e consideravano le comete palle di fuoco con lunghe code accese, a volte apportatrici di sciagure e a volte annunciatrici di lieti eventi, come la cometa di Halley apparsa proprio nell’anno 1300 e affrescata da Giotto nel presepedella cappella degli Scrovegni a Padova. In realtà le comete sono palle di neve sporca, cioè agglomerati di ghiacci di ammoniaca e acqua misti a polveri, provenienti dalle regioni estreme del sistema solare. Una sfera del fuoco esiste realmente intorno alla Terra: si tratta di un guscio sferico soggetto a continuo bombardamento di particelle provenienti dal Sole, dove si raggiunge la temperatura virtuale di 1000000°K, che è assolutamente impercettibile e ininfluente, poiché dura qualche miliardesimo di secondo. La sfera del fuoco è raggiunta dal poeta mediante il trasumanar, un verbo da lui stesso coniato, cioè andare oltre i limiti umani grazie all’aiuto di Beatrice, la filosofia cristiana che lo inonda di una pioggia di luce accompagnata da una musica celestiale. Le distanze vengono coperte rapidamente dalla coppia che viaggia come una folgore. Questo viaggio astrale somiglia molto a quello effettuato da Scipione l’Emiliano nel Somnium Scipionis di Cicerone, accompagnato dall’avo l’Africano. Posizionati sulla Via Lattea, i due protagonisti romani osservano il sistema dell’universo con la Terra al centro, la Luna, il Sole e i pianeti esterni Marte, Giove e Saturno, nonché le stelle fisse, che le girano intorno; mentre Mercurio e Venere ruotano intorno al Sole, secondo il modello mutuato da Eraclide Pontico. XXVI canto dell’Inferno: il folle viaggio dell’Ulisse dantesco Dante e Virgilio si trovano di fronte alle anime di Ulisse e Diomede, consiglieri fraudolenti, avvolte da una fiamma biforcuta, allegoria della loro lingua ingannatrice. Conoscendo bene il carattere sospettoso e il saper parlare di Ulisse, abile nell’uso astuto delle parole greche, Virgilio intima a Dante di ascoltare in silenzio il suo sermone. Stuzzicato con sagacia dal loquace idioma del poeta mantovano, Ulisse si apre senza timore o sospetto e comincia a raccontare il suo ultimo viaggio. E’ qui che Dante modifica arbitrariamente il finale dell’Odissea di Omero, prendendo come esempio il viaggio oltre le Colonne d’Ercole dei fratelli Ugolino e Vadino Vivaldi, i quali, nel 1291, con due galee (Allegranza e S. Antonio), un equipaggio di trecento uomini e due frati francescani, tentarono di circumnavigare l’Africa. Così Ulisse narra che, partito da Circe, decise di intraprendere, con i suoi compagni e l’unica nave che gli rimaneva, un viaggio verso l’ignoto; il forte desiderio di conoscere aveva perfino vinto la dolcezza di figlio, la pieta del vecchio padre, il debito amore per Penelope. Ebbe il coraggio di seguire una rotta nell’alto mare, come aveva fatto l’Ulisse omerico nel tragitto ricostruito da Tagako Niwa da Ogigia (Gozo presso Malta) a Itaca, seguendo i consigli della ninfa Calipso circa l’orientamento stellare, che lo faceva navigare sul 38° parallelo: “E seduto al timone, reggea veglianfo/ il corso del suo legno, con lo sguardo/ alle Pleiadi or volto e a Boote,/ girando, mira ad Orion, la sola/ che in grembo al mare di tuffarsi è schiva:/ l’Orsa, che per consiglio della Ninfa/ egli a manca lasciar sempre dovea ” (Odissea V). Ma forse l’Ulisse dantesco corrispondeva piuttosto ai navigatori del XIII secolo, che si servivano per l’orientamento della pixis nautica o della bussola magnetica a secco allora ideate dalla marineria amalfitana. La sua rotta occidentale fu diretta verso la Spagna, passando per la Sardegna e scendendo in direzione del Marocco. Trascorsero alcuni mesi di navigazione, quando si trovarono alle Colonne d’Ercole, le ultime collocate dai greci, dopo averle spostate, nel corso delle loro esplorazioni verso occidente, tra IX e IV secolo a.C., da Gozo alla Sardegna, a Gibilterra. Nel prendere la direzione per tale stretto, la nave lasciava a destra Siviglia e a sinistra Setta, cioè Ceuta nel Marocco. Così uscirono da quel varco come aveva fatto nel IV secolo a.C., d’estate e orientandosi con le stelle circumpolari, il navigatore greco Pitea di Marsiglia alla ricerca dell’ambra, dello stagno e del piombo nelle isole Cassiteridi (Shetland) a nord dell’Inghilterra e nell’isola di Thyle, tra questa e l’Islanda, dove assistette al fenomeno del Sole a mezzanotte, riportato anche da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia. Nel contempo i fenici, per ordine del faraone Neco, tentarono, senza ritorno, di circumnavigare l’Africa. Al tempo di Dante, comunque, le galere da mercato di Venezia navigavano nel Mare del Nord; è già nei primissimi anni del XII secolo il pirata inglese Goderic era giunto a Gerusalemme con le sue navi, veleggiando in senso opposto. La copertina dell’Odissea di Omero, pubblicazione anno 1843 Al cospetto delle colonne, che lì aveva posto Ercole,quando si recò in Spagna per impadronirsi del bestiame di Gerione, segnando i confini del mondo conosciuto, i compagni dell’eroe acheo arrestarono la nave. Il termine compagni utilizzato da Dante per indicare il suo equipaggio derivava dai componenti della Compagna genovese, un’associazione di mercanti e di capitalisti, e dai compagnoni, marinai e soci della società di colonna amalfitana. D’altronde Ulisse aveva ben appreso la lezione da suo padre Laerte, che partecipò, con i massimi eroi della Grecia, alla spedizione della nave Argo. Allora il Laerziade pronunciò la celebre orazion picciola, quel suo parlare arguto e coinvolgente, per convincerli: “Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virute e canoscenza“. Molto si è scritto su tali versi, alla ricerca in essi di forti segnali preumanistici. Quelle parole caricarono talmente i suoi compagni che de’ remi facemmo ali al folle volo. Qui la follia sembra anticipare la folie di Montaigne, il quale afferma: “i nostri sogni valgono più dei nostri discorsi, la nostra saggezza è meno saggia della nostra follia“. Navigando sempre nella direzione di sud-ovest (sempre acquistando dal lato mancino), ebbero il privilegio di ammirare le costellazioni dell’emisfero australe. Dopo cinque mesi apparve loro la montagna del Purgatorio; purtroppo quel numero 5 era simbolo di sfortuna, annunciatore di castighi. Infatti un improvviso turbine alzò la nave dalla prua, la fece girare per tre volte e al quarto giro alzò la poppa e inabbissò la prora, finchè il mare non la sommerse chiudendosi su di essa. Sulla triste fine del viaggio dell’Ulisse dantesco pesava l’epilogo drammatico della missione dei fratelli Vivaldi, che si persero nell’Atlantico meridionale e non fu trovata più traccia, nemmeno nella puntata esplorativa tentata dal figlio di Ugolino nel 1315, quando Dante era ancora in vita e forse aveva appena completato la Comedia. Inoltre il poeta, per ripararsi da eventuali ripercussioni della Chiesa, dovette per forza condannare lo spirito di ricerca e di conoscenza dell’eroe acheo, anche se in cuor suo, come in quello di molti medievali, ne apprezzava l’indomito coraggio e la libertà di azione. 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