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Prove generali di rivoluzione. Le insurrezioni fallite

La storia tra riforma liberale e rivoluzione democratica

Al caro maestro Andrea Maiorino, formatore di numerose generazioni 
di giovani amalfitani,
con affetto e riconoscenza

Le idee liberali diffuse da Napoleone in Italia e nel contesto più ampio europeo determinarono l’insorgere di sette segrete, rappresentate nella nostra penisola dal fenomeno della Carboneria

Nel contempo cominciarono a delinearsi movimenti repubblicani e democratici. Due furono gli elementi ugualmente perseguiti dai liberali e dai democratici italiani, la libertà e l’indipendenza

Lord Byron si iscrisse alla Carboneria, per poi andare a combattere per la libertà della Grecia. Intanto le rivolte della Spagna e di Napoli costringevano i rispettivi sovrani a concedere la costituzione. La reazione della Santa Alleanza e l’intervento delle truppe austriache cancellarono ogni risultato raggiunto. Pesava, ancora una volta, sul fallimento insurrezionale dei moti del 1821 la mancata propaganda in senso didascalico tra il popolo minuto, che spesso si schierava dalla parte dei sovrani assoluti. Ciò dipendeva da secoli di assoggettamento, da profonda rassegnazione e da inalienabile terrore per le ripercussioni. 

Alessandro Manzoni

L’ode Marzo 1821 che Manzoni aveva scritto per l’occasione finì nascosta in un cassetto, per essere poi tirata fuori e pubblicata quarant’anni dopo a Unità d’Italia compiuta. 

Nuovi giochi politici, sorretti dalle trasformazioni economiche e produttive, contrassegnarono il periodo tra il 1830 e il 1848. Il mondo della letteratura fu molto sensibile a tali trasformazioni e alle istanze connesse: 

Balzac rende attori della sua Commedia umana plutocrati, banchieri, speculatori, contrasti sociali

Dickens nei suoi romanzi di formazione evidenzia lo sfruttamento minorile e il materialismo sfrenato del laissez-faire; Disraeli pone a confronto due nazioni straniere e nemiche, ricchi e poveri, che si affrontano nello stesso Stato; Verga col suo quadro verista, segnato dal ciclo dei vinti e dalla teoria della roba, presenta la situazione negativa della società italiana nel suo divario Nord-Sud. 

In questi diciotto anni del XIX secolo si sviluppò definitivamente il capitalismo e l’Inghilterra giocò ancora un ruolo determinante.

Il 1830 fu un anno di moti e rivoluzioni che segnarono in alcune circostanze passi significativi verso il progresso democratico.

Le Tre Giornate di luglio con le loro barricate parigine costrinsero Carlo X alla capitolazione; il sovrano francese pagava lo scotto della sua lealtà ai dettami della Santa Alleanza e della sua conseguente decisione di sopprimere il regime costituzionale e la libertà di stampa, nonché dello scioglimento del parlamento e della modifica del sistema elettorale per favorire i grandi proprietari fondiari a discapito di mercanti e produttori. 

re Luigi Filippo d’Orléans

La rivoluzione proclamò re Luigi Filippo d’Orléans a capo di una monarchia parlamentare. 

Tornò la libertà di stampa e il sistema elettorale censitario fu rivisto: il limite minimo di censo scese da 300 a 200 franchi, l’età da 30 a 25 anni, l’eleggibilità da 40 a 30; così gli elettori divennero 200000 su una popolazione di 30 milioni (0,7%). Durante il regno di Luigi Filippo si susseguirono vari primi ministri; l’ultimo, Guizot, improntò la sua politica economica sulla prosperità, esaltando la classe borghese, sull’onda del motto enrichissez-vous (arricchitevi) e gettò le basi dell’impero coloniale con le conquiste in Algeria

Moti insurrezionali, anche se più contenuti, scoppiavano intanto in Belgio, lo Stato più industrializzato d’Europa dopo l’Inghilterra. Le giovani industrie belghe volevano proteggersi con alte tariffe doganali. Invece l’Olanda presentava un’economia liberista fondata sul commercio. Il sovrano Guglielmo I con la sua politica assolutistica aveva favorito nelle province meridionali l’alleanza tra liberali e cattolici, un’alleanza che troverà fortuna fino ai nostri tempi (liberali e cristiano-sociali). 

I risultati della rivolta furono l’istituzione del Congresso Nazionale, un’assemblea costituente che elaborò una costituzione decisamente liberale, sostenuta dai liberali progressisti. Punti salienti furono la limitazione dei poteri del monarca, la sovranità popolare, il sistema elettorale basato sul censo. 

Nei länder della Germania le agitazioni popolari portarono a ulteriori riforme costituzionali. Ma Metternich convinceva i governi della Confederazione ad approvare la dichiarazione dei sei articoli, con la quale si condannavano i sistemi liberali e si limitavano le libertà costituzionali e di stampa.

A Modena il commerciante e imprenditore Ciro Menotti organizzava i patrioti liberali allo scopo di convincere Francesco IV a riformare il suo Stato. In un primo momento costui accettò, soprattutto per entrare in concorrenza con il re Carlo Alberto di Savoia, al fine di crearsi un principato ben più esteso rispetto al ducato estense. 

Ma, impressionatosi per il mancato consenso dell’Austria alle sue operazioni, fece marcia indietro, giustiziando Menotti e i suoi seguaci. L’insurrezione, comunque, si diffuse in buona parte dell’Italia centrale, prontamente annullata dall’intervento austriaco. A differenza degli altri casi europei, i moti italiani avvenivano in una regione nella quale il progresso economico e sociale non aveva ancora prodotto gli effetti di una totale rivoluzione. 

Il fallimento dei moti del 1831 sanciva la fine della Carboneria in Italia.

In Inghilterra il confronto tra tories e wighs diventava sempre più acceso, soprattutto per bloccare il predominio dell’aristocrazia fondiaria, facendo aumentare il numero degli elettori e consentendo la partecipazione di ceti più bassi. 

Il primo ministro Grey

Il primo ministro Grey riuscì a convincere, oltre ai wighs, gran parte dei tories per l’approvazione di una legge nel 1832. Così eliminò dal sistema elettorale 56 vecchi borghi, introducendo nei collegi 22 città, che avrebbero eletto due deputati ciascuna; altri 30 borghi che prima avevano due deputati ora ne eleggevano uno solo, mentre ne erano inseriti altri 20.  Abbassò il limite del censo elettorale a 10 sterline annue, estendendo il diritto di voto agli affittuari di terre e di case. Pertanto, il numero di elettori salì da 500000 a 800000, rispetto a una popolazione di 25 milioni (3,2%). In tal modo la monarchia liberale inglese faceva un significativo passo avanti verso la futura democrazia. Una limitazione era rappresentata dal voto palese, che permetteva ai proprietari ricchi e ai politici influenti di controllare le elezioni.

Allora i banchieri europei diventavano più potenti, fino al punto di partecipare alla vita politica o di influenzarla indirettamente. 

Tra questi primeggiavano i Rothschild, ebrei tedeschi e inglesi, che finanziarono numerose imprese. Aveva inizio così il rapporto sempre più stretto tra le banche e la politica, argomento oggi all’ordine del giorno!

In quel tempo l’Italia era ancora un paese agricolo, mentre nelle sue città le attività economiche erano principalmente il commercio e l’artigianato. Il regime napoleonico aveva contribuito al miglioramento socio-economico, mediante l’abolizione della feudalità e l’incameramento e la vendita dei beni ecclesiastici; ciò favorì l’ascesa della borghesia agraria. Al Nord si svilupparono, comunque, le prime fabbriche tessili, mentre al Sud veniva inaugurata la prima linea ferroviaria e si costruivano navi a vapore soprattutto nel cantiere di Castellammare di Stabia, sorto nel lontano XIV secolo. In quella situazione mancavano, in sostanza, imprenditori e capitalisti

Il fallimento dei moti insurrezionali e la dissoluzione delle società segrete ispirarono Giuseppe Mazzini, repubblicano e democratico, che antepose alle rivendicazioni socio-economiche il problema dell’unità nazionale. Nell’esilio marsigliese egli fondava la Giovine Italia, con la quale affermava che la rivoluzione nazionale repubblicana e democratica doveva essere una rivoluzione sociale. Gli aderenti all’associazione furono cittadini borghesi, artigiani e proletari, ma non contadini. 

Con tale iniziativa il padre dell’Unità d’Italia dava luogo a un moderno partito politico di orientamento democratico-repubblicano. Lo sguardo lungimirante di Mazzini guardava oltre: nel 1834 fondava la Giovine Europa, che aveva quale obiettivo principale la liberazione dei popoli oppressi; possiamo affermare che egli auspicava una libera Italia in una libera Europa e, quindi, potrebbe essere a giusta ragione considerato un ispiratore dell’Unione europea.

Perseguitato in Italia e all’estero, Mazzini trovò accoglienza in Inghilterra. Lì conobbe il proletariato urbano prodotto dalla rivoluzione industriale, per cui nel 1840 fondò l’Unione degli operai italiani; questo fu un primo passo avanti per la futura costituzione di un vero e proprio partito dei lavoratori. La sua idea di unità nazionale ispirò ad altri patrioti progetti per la realizzazione della stessa.

E’ successo il Quarantotto!

E’ successo il Quarantotto!”. Questo modo di dire, che apostrofa uno stato di subbuglio e confusione, deriva da quanto accadde in Europa e in Italia nel 1848.

Gli antefatti sono da ricercare nella crisi economica scoppiata nel periodo 1845-1847 in tutta Europa. La crisi toccò l’agricoltura di alcuni paesi, la cui scarsa produzione generò fenomeni di sussistenza, e il commercio e l’industria in altri. Così tutti e tre i beni economici, primario (agricoltura), secondario (industria), terziario (commercio), furono inesorabilmente coinvolti nella crisi. Sembrava che l’Europa fosse tornata all’epoca dell’ancien régime, caratterizzata nuovamente da fame e carestia, fallimenti economici, chiusura di giovani fabbriche, disoccupazione dilagante, Questa situazione doveva essere la causa del difficile esordio e dell’impacciato approccio del capitalismo in campo economico.  

All’apparente tracollo dell’assolutismo e dell’incapacità del capitalismo trovarono la forza di reagire le classi più basse del popolo, pronte a prestare la loro opera per risolvere la questione sociale, anteponendola alla questione nazionale. Pertanto, specialmente in Francia, si cominciava a discutere circa una revisione nell’organizzazione del lavoro e della produzione, che avesse quale obiettivo finale l’ascesa al potere dei lavoratori; non a caso in quegli anni Karl Marx stava progettando in Inghilterra una nuova rivoluzionaria ideologia politica ed economica (cfr. il capitolo Socialismo). 

Sulla spinta del neoguelfismo di Vincenzo Gioberti, che proponeva un’unità nazionale fondata su di una confederazione di Stati guidata dal papa quale primus inter pares, Pio IX concedeva l’amnistia politica e la libertà di stampa, istituiva la guardia civica e nominava un consiglio di governo assolutamente laico. 

Contemporaneamente Massimo d’Azeglio suggeriva l’abolizione delle dogane per favorire il commercio tra gli Stati confederati, ottenendo il consenso del pontefice, di Carlo Alberto di Sardegna, di Leopoldo II arciduca di Toscana. 

Intanto nel Meridione Luigi Settembrini si esponeva coraggiosamente contro il governo assolutistico borbonico con la sua Protesta del popolo delle Due Sicilie. La conseguenza fu immediata: Palermo si ribellò sotto la guida di Rosolino Pilo e di Giuseppe La Masa, costringendo le truppe borboniche alla ritirata. Ferdinando II, che temeva altre insurrezioni sulla parte continentale del suo regno e non riteneva sufficienti i contingenti a sua disposizione, chiese rinforzi all’Austria; ma lo Stato pontificio negò il passaggio alle truppe austriache, anzi fece pesare la condizione di vassallaggio, seppur nominale, del regno delle Due Sicilie nei suoi confronti, condizione esistente sin dai tempi dei normanni. A quel punto venne fuori il colpo di genio di Ferdinando II, che fu abile nel promulgare la costituzione, anticipando nell’ordine Leopoldo II di Toscana, Carlo Alberto di Sardegna e Pio IX

Intanto si presentava un esempio da imitare per alcuni patrioti italiani d’ispirazione democratica e repubblicana. In Svizzera nasceva allora uno Stato federale democratico. Sicuramente a convincere i cantoni più conservatori dovette essere l’aspirazione sociale dei protestanti calvinisti

Luigi Filippo d’Orléans

La fresca aria svizzera soffiava verso ovest sul sonnecchiante regime conservatore francese di Luigi Filippo d’Orléans. Alzavano, così, la testa i radicali repubblicani che costringevano il sovrano ad abbandonare la posta: un quadrumvirato gestiva allora il potere, composto da Alphonse de Lamartine e dai suoi repubblicani moderati, affiancato dal democratico Ledru Rollin, dal socialista Louis Blanc e dall’operaio meccanico Alexandre Martin. Il loro scopo era la formazione di una repubblica sociale, nella quale lo Stato giocasse un ruolo di primo piano nell’occupazione lavorativa.Un risultato significativo fu la giornata di lavoro di dieci ore a Parigi e di undici nelle province. Ma subito l’ombra di uno spettro fu intravista dalle menti dei moderati: la minaccia di un sopravvento socialista.

Fu istituito il suffragio universale, che determinò l’aumento degli elettori da 200000 a 9 milioni e una pesante sconfitta elettorale per radicali, socialisti, sinistra proletaria. Ma le forze di sinistra non accettarono la lezione che aveva consentito loro di prendere un centinaio di seggi su un totale di 876 (circa l’11%). Duro fu lo scontro tra il proletariato e la borghesia moderata; a cannonate furono dissolte le barricate popolari. I vincitori abolirono la riduzione della giornata lavorativa, mantenendo, comunque, il suffragio universale e stabilendo l’elezione di un presidente, che sarebbe rimasto in carica quattro anni, nonché di un’assemblea legislativa rinnovabile ogni tre anni. Un uomo nuovo ma di ben consolidata stirpe, Luigi Bonaparte, nipote del celebre Napoleone, diventava il primo presidente della repubblica borghese.

Borghesia e proletariato, legati alle industrie tessili e minerarie, cominciavano a confrontarsi anche in Prussia. Lì, comunque, si faceva sentire forte l’alito assolutistico del confinante impero asburgico. Pertanto, il regime si basava sui nobili grandi proprietari, sull’esercito e sulla burocrazia. Federico Guglielmo IV dava inaspettamente in quel momento l’impressione di un’apertura ai liberali, mirando forse in cuor suo a far della Prussia lo Stato guida per l’unificazione dell’intera Germania

L’Italia nel 1848

Contemporaneamente non troppo lontano un altro sovrano la pensava in modo simile: era Carlo Alberto, che aveva concesso la costituzione soprattutto per diventare il faro guida di tutti i liberali d’Italia. 

E in questo gli venne in aiuto Cesare Balbo, suo primo ministro nel 1848, il quale avanzò la proposta dell’Italia unita come confederazione di Stati guidata dal re sabaudo. Così questa specie di neoghibellinismo entrava in concorrenza con il neoguelfismo di Gioberti. 

Federico Guglielmo IV istituiva la Dieta riunita, una sorta di parlamento nazionale, in quanto riuniva i rappresentanti delle diete provinciali. Ciò avvenne, comunque, su forti pressioni liberali. Nello spirito del comune intento della costituzione di uno Stato nazionale il sovrano e i liberali giunsero ad un felice compromesso: furono create la camera elettiva dei deputati e la camera dei signori di nomina regia; votavano gli elettori più ricchi; il governo non dipendeva dal parlamento, ma direttamente dal re.

L’impero asburgico si fondava su posizioni conservatrici, che consistevano nell’alleanza tra monarchia e Chiesa, in forme di feudalità in Ungheria e in Boemia, nel protezionismo industriale. Le attività commerciali erano gestite dagli ebrei. La Lombardia, che aveva ben appreso la lezione del dispotismo illuminato, risultava essere l’area più progredita a livello economico dell’impero. Il sistema asburgico vacillava e fu scosso dall’interno. Le prime rivoluzioni scoppiarono nelle regioni orientali. In Ungheria il liberale Kossuth costituiva i piccoli e medi proprietari, antesignani del Partito dei piccoli proprietari della repubblica magiara di oggi, in contrapposizione all’aristocrazia fondiaria. Così gli Asburgo, di fronte a tale situazione e avendo perduto il cancelliere Metternich, pensavano di mostrarsi disponibili per concessioni liberali. Essi allora godevano delle simpatie dei grandi tedeschi, i quali auspicavano la partecipazione diretta dell’Austria al nuovo Stato federale progettato e offrivano loro la corona; ma i piccoli tedeschi non erano d’accordo, per cui sostenevano l’unità della Germania intorno alla Prussia e al casato degli Hohenzollern. Prevalse quest’ultima opinione, perchè l’Austria non accettò la prima. 

Approfittando della momentanea debolezza austriaca, venivano organizzati moti in Lombardia, ai quali presero parte anche i contadini. La loro partecipazione preoccupò non poco i moderati, i quali temevano che la situazione potesse sfuggire loro di mano e favorire una radicale rivoluzione sociale. La strategia fu di isolare i contadini senza una guida; tale mossa produsse un effetto assolutamente negativo, poiché gli austriaci li riportavano dalla loro parte, assicurando la protezione paternalistica del regime assoluto.

Intanto si tessevano le trame per una totale ribellione al dominio austriaco. Vi era, però, un ostacolo che rallentava il gioco: le fazioni erano due e contrastavano per opposte soluzioni. Da una parte vi erano i liberali moderati, che volevano una federazione di monarchie sotto la guida del pontefice (Gioberti) o del re di Sardegna (Balbo); dall’altra i repubblicani con Mazzini, che puntavano all’insurrezione popolare. Il teorico di questi ultimi era Carlo Cattaneo, che proponeva una confederazione di repubbliche con a capo un presidente eletto ogni quattro anni a suffragio universale, come avveniva negli Stati Uniti d’America o in Svizzera. Di certo questa era la soluzione meno praticabile, poiché presupponeva alcune operazioni di difficile attuazione: in primo luogo occorreva mettere in campo un’efficace politica d’indottrinamento e convincimento delle masse popolari, segnatamente timorose dei principi assoluti e, pertanto, rassegnate; in seconda istanza bisognava realizzare un coordinamento nazionale che funzionasse da regia per le operazioni da compiere; in terza battuta si doveva formare un esercito numeroso e preparato in grado di espellere gli austriaci. 

Le Cinque Giornate di Milano

Ad ogni modo, le due fazioni si trovarono insieme per sperimentare i loro progetti: dal 18 al 22 marzo 1848 Milano insorse e alzò le sue barricate; le Cinque Giornate favorirono, con l’intervento militare di Carlo Alberto, la cacciata delle forze austriache. Ma Carlo Cattaneo tenne a precisare che “la ritirata di Radetzky era inevitabile, urgente. E’ un fatto capitale; e vuolsi mettere bene in chiaro. Poichè si è poi asserito molto vanamente che se Radetzky uscì disordinatamente da Milano alla sera del 22, fu per sottrarsi all’esercito piemontese, il quale veramente non comparve sotto le nostre mura se non dopo il mezzodì del 26. La risoluzione di rompere guerra all’Austria fu presa a Torino la sera del 23, per effetto del tumulto che produsse nel popolo la nuova della nostra liberazione. Quel manifesto di guerra fu il primo frutto della nostra vittoria; e non viceversa. La cronologia è l’occhio dell’istoria”

Intanto, infervorati da quella prima vittoria, giungevano rinforzi militari da altre parti d’Italia: Cesare De Laugier guidava i toscani, Giovanni Durando le truppe del papa, Guglielmo Pepe le napoletane. Eroica fu la resistenza degli universitari di Pisa, guidati dal loro maestro Giuseppe Montanelli, che consentì ai piemontesi la presa di Peschiera, una delle fortezze austriache del Quadrilatero

La mancata comprensione tra Garbio Casati, esponente dei moderati liberali filo-piemontesi, e il repubblicano Carlo Cattaneo offrì l’occasione agli austriaci di ricomporre i ranghi e di partire alla controffensiva. 

Sulle note della celebre marcia di Johann Strauss, il maresciallo Radetzky ottenne le vittorie sperate, costringendo Carlo Alberto all’abdicazione e offrendo all’Austria la possibilità di annullare le istanze liberali. La reazione tornava ad affermarsi a Praga, dove l’esercito, anti-liberale e anti-democratico, prendeva il potere e tornava sotto le ali dell’aquila asburgica, per difendere la propria nazione da possibili ingerenze tedesche e ungheresi. I grandi signori feudali tornavano a galla in Ungheria, appoggiati dall’esercito russo, che con un attacco preventivo impediva alle idee di Kossuth di diffondersi in Polonia

Di fronte alla revanche asburgica Pio IX mutava atteggiamento e si dichiarava neutrale nel conflitto tra l’Austria e i patrioti italiani. Naufragava, in tal modo, il neoguelfismo di Gioberti, anche perchè i neoguelfi erano nobili conservatori e grandi proprietari terrieri, assolutamente restii ad accettare mutamenti rivoluzionari. Dopo alcuni mesi Ferdinando II, suggerito dall’Austria, tornava a imporre la propria autorità con il pungo di ferro.

La repubblica romana.

Ecco come la pensava Carlo Cattaneo a riguardo di Carlo Alberto e della costituzione da lui emanata: “La costituzione di cui Carlo Alberto non graziò finalmente i suoi popoli se non dopo che il trionfo di Palermo ebbe fatto concedere la costituzione anche a Napoli, fu solo una necessità o al più un manifesto di guerra per cacciare sotto i primi colpi degli Austriaci la nostra gioventù”. Ma quella costituzione, conosciuta come Statuto Albertino, ebbe un’ampia fortuna, perché, attraverso il regno d’Italia, giunse sino al 1946. 

Lo Statuto Albertino

I democratici, assolutamente determinati a prendersi la rivincita, riuscivano a far insorgere Roma e a cacciare il papa. Nasceva così la Repubblica romana guidata dal triumvirato formato da Aurelio Saffi, Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini e organizzata mediante una costituzione, molti articoli della quale sono alla base della carta costituzionale del 1948. Il discorso inaugurale di Mazzini puntava soprattutto a esaltare il ruolo storico di Roma

Dopo la Roma che operò colla conquista delle armi, dopo la Roma che operò colla conquista della parola, verrà, io dicevo a me stesso, verrà la Roma che opererà colla virtù dell’esempio: dopo la Roma degl’Imperatori, dopo la Roma dei Papi, verrà la Roma del Popolo. La Roma del Popolo è sorta: io parlo a voi qui della Roma del Popolo: non mi salutate di applausi: felicitiamoci insieme”

E la Roma del Popolo ottenne il suo inno, scritto per l’occasione dal giovane genovese Goffredo Mameli e destinato a diventare l’inno della futura Repubblica italiana.

L’Inno di Mameli

<< Fratelli d’Italia/ l’Italia s’è desta,/ dell’elmo di Scipio/ s’è cinta la testa./ Dov’è la Vittoria?/ Le porga la chioma,/ ché schiava di Roma/ Iddio la creò./ Stringiamci a coorte/ siam pronti alla morte/ l’Italia chiamò./ Noi siamo da secoli/ calpesti, derisi,/ perchè non siam popolo,/ perchè siam divisi./ Raccolgaci un’unica/ bandiera, una speme:/ di fonderci insieme/ già l’ora suonò./ Stringiamci a coorte/ siam pronti alla morte/ l’Italia chiamò./ Uniamoci, amiamoci,/ l’Unione, e l’amore/ rivelano ai Popoli/ le vie del Signore;/ giuriamo far libero/ il suolo natìo:/ uniti per Dio/ chi vincer ci può?/ Striangiamci a coorte/ siam pronti alla morte/ l’Italia chiamò./ Dall’Alpi a Sicilia/ dovunque è Legnano,/ ogn’uom di Ferruccio/ ha il core, ha la mano,/ i bimbi d’Italia/ si chiaman Balilla,/ il suon d’ogni squilla/ i Vespri suonò./ Stringiamci a coorte/ siam pronti alla morte/ l’Italia chiamò./ Son giunchi che piegano/ le spade vendute:/ già l’Aquila d’Austria/ le penne ha perdute./ Il sangue d’Italia,/ il sangue Polacco,/ bevé, col cosacco,/ ma il cor le bruciò./ Stringiamci a coorte/ siam pronti alla morte/ l’Italia chiamò./ Evviva l’Italia/ dal sonno s’è desta/ dell’elmo di Scipio/ s’è cinta la testa./ Dov’è la Vittoria?/ Le porga la chioma/ ché schiava di Roma/ Iddio la creò”

Il ritornello rievoca la grandezza di Roma e la consapevolezza dei romani della missione, a loro affidata dal Fato, di civilizzazione del mondo; l’elmo di Scipione, vincitore sulla potenza cartaginese, è il simbolo della riscossa degli italiani. Dalla Roma liberata dal dispotismo pontificio, principale ostacolo all’unità d’Italia, e diventata repubblica democratica come Roma del Popolo, deve partire la riscossa nazionale, suscitando negli animi la volontà di rivivere le antiche glorie. L’inno mostra la consapevolezza del secolare dominio straniero e dell’annullamento della dignità di popolo rievocato da Alessandro Manzoni nel coro dell’atto III dell’Adelchi mediante l’espressione un volgo che nome non ha. Il richiamo alla bandiera, sicuramente il tricolore innalzato a Reggio Emilia e poi a Milano nella circostanza della Campagna d’Italia di Napoleone, è il simbolo dell’unione. 

La Repubblica romana ha puri fondamenti cristiani fondati sulla fratellanza e sull’amore, nel motto mazziniano Dio e Popolo. In tale ottica vi è la convinzione che la libertà e l’autodeterminazione dei popoli siano un diritto naturale e perciò dettato da Dio. Altri simboli storici sono elencati nell’inno: la battaglia di Legnano, che vide l’affermazione dei liberi Comuni della Lega Lombarda sul dispotismo germanico di Federico Barbarossa; Francesco Ferrucci che difese Firenze contro l’arroganza di Carlo VIII; l’eroico gesto di Balilla per la sua patria genovese; i Vespri siciliani che liberarono l’isola dall’asfissiante tassazione angioina. 

L’esperienza appena trascorsa delle Cinque Giornate di Milano ha provato che l’aquila austriaca sta vacillando e non è invincibile; gli italiani che ha sottomesso e sfruttato, insieme ai polacchi martoriati dall’aquila bicipite russa (cosacco), ora appiccano il fuoco della rivoluzione democratica, repubblicana, nazionale.

Purtroppo l’esperienza bella e sublime della Repubblica romana era destinata a finire in un bagno di sangue, versato nel nobile nome della Libertà dopo una strenua ed eroica resistenza. Secondo le direttive della Santa Alleanza l’esercito francese sbarcava sulle coste laziali e poneva l’assedio alla Città Eterna, mentre le truppe borboniche si avvicinavano dalla direzione meridionale, pronte a rimettere sulla cattedra di S. Pietro il sommo pontefice, di cui erano vassalle. 

Giuseppe Garibaldi

Giuseppe Garibaldi, il coraggioso generale di quella resistenza, usciva per tempo dalla città con duemila uomini pronto a recar soccorso a Venezia, la rinata repubblica marciana divenuta democratica sotto la guida di Daniele Manin, un degno erede dei dogi della Serenissima. Ma l’esercito austriaco aveva la meglio sui veneziani e ripristinava in Toscana Leopoldo II, annullando ogni conquista costituzionale.

Così finiva la primavera dei popoli del 1848-1849 che, sebbene non fosse riuscita nei suoi intenti, forse perché non vi fu un’intesa tra città e campagna, rimase un fulgido esempio di libertà e democrazia pronto a essere imitato, questa volta con successo, quasi cento anni più tardi. 

 

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