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Un piede nella barca e l’altro nella vigna: l’antico miracolo amalfitano

Ultimo aggiornamento martedì, 21 Luglio, 2020   15:45

Lo storico medievalista della Costiera amalfitana, Giuseppe Gargano, ripercorre le origini della società amalfitana segnata da diversi cambiamenti e scenari. Prime tracce della societas maris si possono riscontrare in un documento del 995.

Il Chronicon Salernitanum, una fonte cronachistica dell’ultimo quarto del X secolo, che riporta tra l’altro le origini di Amalfi e degli amalfitani, ricostruendo la cronologia dei loro capi al tempo della repubblica aristocratica, afferma che la società amalfitana di quell’epoca era distinta in due classi sociali: majores natu e plebs

Il Chronicon Salernitanum

La prima rappresentava il ceto dominante dell’aristocrazia di toga e mercantile; la seconda risultava essere, a prima vista, la restante parte della popolazione. Alla luce di moderne acribiche e puntuali indagini condotte nelle fonti documentarie, essa si rivela esser stata un coacervo di componenti collocate in una scala segnata da dinamici elementi evolutivi. 

Il dominus amalfitano e l’eredità ai ‘figli delle serve’ 

Alla base di questa scala vi erano i famuli, servi che appartenevano ai domini, dei quali erano a servizio e con i quali vivevano nei fundaci o hospitia domorum tra le mura della civitas, risiedendo in piccoli e angusti ambienti terranei denominati casaline. Il dominus aveva la facoltà di concedere loro la libertà: questo accadeva spesso quando il loro padrone dettava il proprio testamento; in quell’occasione egli si premurava di assegnare ai propri servi una modesta somma di denaro, a volte destinata come dote per il matrimonio di un’ancilla, oppure più raramente un appezzamento di terreno extramoenia. Capitava pure che, all’atto della dettatura testamentaria, il dominus, pro redemptione anime, riconoscesse qualche figlio naturale procreato con una sua serva, trasferendogli una parte secondaria dell’eredità.

I coloni, “plebei” ma grandi costruttori  di terrazzamenti 

Un gradino più su nella scala sociale della plebs amalfitana si trovavano i coloni, contadini che gestivano, mediante contratti pluriennali ad laborandum, se si limitavano al semplice lavoro dei campi, oppure ad pastinandum, se vi impiantavano nuove colture, i casali e le proprietà terriere ecclesiastiche, di monasteri o di aristocratici. 

Esterno di un vecchio casale in Costiera amalfitana

L’entità fondamentale di questa economia agreste amalfitana era il casale, costituito da una grossa casa colonica a più piani (casa solarata), che aveva al terraneo stalle (mandrolla), depositi (catodea), ambienti per la vinificazione (palmenta et labella), cantine (cervinaria, buttaria o cellaria), antistante cortile (curtis), vani abitabili ai piani superiori. Intimamente collegati al casale vi erano i terreni sistemati a terrazze a gradoni, seguendo l’acclività dei siti, ben tenute dalle macere di pietra a secco (macerine), nonché boschi e selve per la produzione della legna da impiegare nella cantieristica navale e da esportare nei paesi arabi della costa africana. 

La Costiera e la sua antica civiltà del vino 

In occasione della vendemmia settembrina, il proprietario, sia esso un ente religioso o un laico, inviava presso il colono un uomo di fiducia, affinché soprintendesse alle operazioni. Questi doveva essere ospitato dal colono mediante vitto e alloggio, offrendogli o il suo pasto giornaliero corrente (de coquinato suo) oppure pane e lardo (pane et condimentum, pane et lardum o untum) insieme a frutta e vino.

L’interno di una vecchia casa tipica amalfitana

Quando un contratto era sacro come un rito 

Il contratto agricolo prevedeva varie soluzioni, che avevano comunque la clausola dell’offerta dei prodotti della terra da parte del colono al suo padrone. Così il census dovuto poteva essere in denaro (pensio annalis) o in natura, cioè nella consegna di una parte del prodotto. Quando veniva stabilita quest’ultima soluzione, la ripartizione poteva essere, come parte ricevuta dal colono, di 1/4, 1/3 oppure 1/2. Quest’ultima, detta mezzadria, era in genere applicata dai monasteri ed era la più vantaggiosa per il colono. La divisione dei prodotti avveniva nel momento in cui essi erano maturi; quindi seguiva un preciso calendario agricolo. Ma quello della vendemmia assumeva la sacralità di un rituale consuetudinario dello stesso sapore dell’omaggio di agnelli, di capretti, di uova che avveniva in occasione del Natale e della Pasqua, le principali feste comandate del rito cristiano. E la porzione di prodotto che rimaneva ai coloni, tolta ancora la parte necessaria alla funzione fisiologica della nutrizione, come veniva impiegata? Noi siamo convinti che il surplus agricolo fosse ulteriormente incrementato da una certa quantità abilmente celata e sfuggita al controllo dell’uomo di fiducia del padrone.

Quando Ravello era stalle e pascoli 

Una vera e propria società di pastorizia veniva stabilita tra gli aristocratici amalfitani e i pastori dei siti montani di Agerola, di Tramonti, di Scala, di Ravello, i quali conducevano al pascolo e custodivano nei recinti e nelle stalle ovini, caprini, bovini e suini, che avevano acquistato mediante il capitale messo a disposizione dal socio aristocratico. I prodotti dell’allevamento, siano essi carni o latticini, venivano divisi per metà. 

Amalfi in una vecchia stampa

Marinai amalfitani figli del contadino-pescatore. Pescatori a Praiano e corollari a Scala 

I contadini dei villaggi occidentali di Amalfi, che si sviluppavano in senso verticale dal mare verso le colline, coloni o braccianti alla giornata (operarii), praticavano anche l’attività della pesca; particolarmente operosi erano gli abitanti di Praiano e di Vettica Maggiore, poiché potevano pescare in un mare piscosum ricco di pesci dalle qualità ricercate, nonché di pregiati coralli bianchi e rossi, con i quali a Scala si confezionavano coroncine dette paternostri. Una sorta di industria della pesca e della lavorazione del pescato avevano organizzato i monaci-feudatari dei monasteri dei Ss. Maria e Vito di Positano e dei Ss. Maria e Benedetto di Erchie, che gestivano gli autoctoni alla stregua di servi della gleba.Quotidianamente il surplus agricolo e i prodotti dell’allevamento e della pesca erano venduti in appositi e dedicati luoghi della città: la Platea Fructuum per i primi e la Platea Carnium et Piscium per i secondi. 

Amalfi antica in un quadro di Vincenzo Caprile

La figura del contadino-pescatore fece da battistrada per quella meglio riuscita del marinaio-contadino, che, come considera Mario Del Treppo, “aveva un piede nella barca e l’altro nella vigna”. Tra le famiglie dei coloni, lasciati gli anziani, le donne e i fanciulli infra etatem, cioè tra i 14 e i 18 anni a lavorare la terra, gli uomini validi e maggiorenni si aggregavano alle societates maris quali marinai. Questi erano i nautae indicati nella Tabula de Amalpha, ai quali il codice marittimo assegnava specifiche mansioni e ne regolava l’attività lavorativa. 

Tabula de Amalpha

Tabula de Amalpha: diritti e doveri degli armatori 

Ecco cosa recita la Tabula a proposito del nauta

Cap. 1: deve prestare la propria opera agli ordini del patronus, il quale nei primi tempi era il proprietario e il capitano della nave. I compiti del nauta erano di attracco e ancoraggio, di tiraggio a secco, di varo e di manovra per l’uscita della nave dal porto, nonché di gestione delle vele durante la navigazione.

Cap. 2: quando viene ingaggiato (gagium, imprumptum o mutuum), riceve un anticipo sul pagamento detto avantagio (cap. 9). Se non vuol proseguire il viaggio, il patronus può chiedergli il pagamento del doppio dell’anticipo (pena dupli), distribuito per metà al patronus e per metà alla Curia

Cap. 41: se trova impiego migliore, deve avvisare il patronus tre giorni prima della partenza della nave e restituire l’anticipo.

Cap. 13: se rimane a terra al servizio della società, riceve 5 grani (0,25 tarì) al giorno.

Cap. 26: se la nave naufraga o è catturata, non partecipa alla perdita, ma deve restituire l’anticipo.

Cap. 28: se la nave dev’essere riscattata, non partecipa al riscatto. 

Terre, coloni e le analogie con Gaeta 

Gli introiti della vendita del surplus agricolo e dei prodotti dell’allevamento, insieme ai guadagni procacciati mediante la partecipazione come marinai salariati alle societates maris, promossero l’ascesa socio-economica dei coloni, che gradualmente riuscirono ad acquistare proprietà terriere dall’aristocrazia amalfitana o dagli enti ecclesiastico-monastici nell’ambito della terra del ducato in cui vivevano. In tal modo si costituiva una diffusa classe di piccoli o modesti proprietari terrieri. Questa classe era contemporaneamente presente a Gaeta, dov’era indicata tramite l’appellativo di minores. I diplomi ducali gaetani di quel tempo distinguevano la società del ducato in tre livelli: oltre ai minores, vi erano i majores natu o nobiliores, l’aristocrazia  dei latifondisti, e il ceto medio dei mediocres. Questi erano mercanti che praticavano una navigazione di cabotaggio principalmente con Napoli e Roma e artigiani che esercitavano il loro mestiere in botteghe distribuite nell’area urbana di Gaeta. 

PER APPROFONDIRE: Tabula de Amalpha, soluzioni antiche per problemi sociali di oggi

Quando ad Amalfi le ‘piazze’ erano degli artigiani 

Artigiani erano attivi pure tra le mura di Amalfi, raggruppati in dedicate botteghe, concentrate, secondo un preciso piano urbanistico funzionale, in appositi spazi urbani, come, ad esempio, la Platea Fabrorum o la Platea Calzulariorum; alcuni svolgevano la propria arte nei cortili delle loro abitazioni. Quelli organizzati nelle piazze (platee) andavano a costituire consorterie o corporazioni, che trovavano il loro punto di riferimento spirituale e sociale nelle chiese ivi esistenti, quali S. Maria Ferrariorum e S. Maria de Sandala o Calzulariorum

Il boom edilizio dei mediocres amalfitani 

Con una gradualità priva di soluzione di continuità un buon numero di nuovi proprietari terrieri ex coloni, provenienti dai villaggi esterni, si insediava in città, dove costruiva proprie residenze ad imitazione delle case-azienda dell’aristocrazia comitale. Altre famiglie restavano nei luoghi di origine, dove accrescevano la loro proprietà fondiaria e inserivano propri rappresentanti nell’organizzazione ecclesiastica locale. Questa era la nuova classe dei mediocres amalfitani. Come essi erano divenuti da coloni proprietari, così volevano passare da nautae a patroni nell’accezione di “padroni del naviglio”. Ma una nave mercantile, sia essa un nabidium o un buctius, costava troppo, quantomeno 4000 tarì, somma di cui non era disponibile nessun singolo mediocris. 

Contratto di colonna: l’antenata della società per azioni 

Allora l’acuto ingegno di questi marinai-contadini che s’eran fatti da sé illuminò la soluzione del problema: uno da solo non ci sarebbe riuscito ma un gruppo associato sì. Nasceva così l’idea del contratto di colonna: la nave veniva valutata 24 carati (dall’arabo qirat=parte), corrispondente alle latine 12 once, che costituivano l’integra totalità di un bene; ciascun mediocre acquistava, versando un proprio capitale, uno o più carati, diventando un socius o caratista della societas maris

A proposito della costruzione di una nave con il concorso dei socii o patroni de carate e della sua conseguente vendita, la Tabula recita in tal modo:

La caravella e le sue parti

Cap. 61: << Jtem si nave, o legno ad jnstantia di creditore lo quale da nuovo sarà fatta, et edificata avanti sia varata, o levata da scario, o avanti che caverà fatto alcuno viaggio sarà venduto sopra lo prezzo del tale navilio, meglio haverando ragione quelli, alli quali demum sarà per quelli edificarando questo Navilio, per legnami, pece, stoppa, chiodi, jnsartia, le quali cioè comparate saranno ad suopo di quel vascello, con quello, lo quale improntasse alla detta redificatione suoi denari, et questi de corriero al prezzo predetto, et tutti questi correno per uno numero, et deveno prima esserno pagati tra l’altri creditori, et si lo prezzo ricevuto di tale naviglio non fusse bastante a pagare li detti mastri, li quali lavorato haveranno tale legno, et alli venditori della stoppa, legname, chiodi, et altre cose, quello tal prezzo si deve tra loro partire soldo per lira prima, che ciascheduno de loro è in simile justitia, et a tali creditori in questo caso anteriorità di tempo non giova, et se per avventura il detto vascello haverà fatto viaggio alcuno, et poi sarà venduto ad jnstantia di detti creditori, lo prezzo ricevuto di quello vascello si deve in questo modo distribuire, primo, si deveno pagare li servitiarij, et li marinari di nave, di quello, lo quale se conoscerà doverno ricevere per loro soldo, et poi quelli li quali conoscerando haverno improntato sopra l’edificio di tal nave, cioè chi primo sarà in tempo >>. 

La vendita di una nave costruita mediante i soldi di creditores poteva avvenire nei seguenti modi:

  1. prima del varo della nave;
  2. dopo il primo viaggio della nave. Nel primo caso la somma ricevuta sarebbe stata distribuita da una parte alle maestranze e ai fornitori di materiali e di attrezzature, ripartita in parte proporzionale, e dall’altra a coloro che avevano investito il denaro. Nel secondo caso sarebbero stati pagati in modo proporzionale dapprima gli operai e i marinai e poi gli investitori di capitali. All’attività cantieristica prendevano parte maestri d’ascia, segatori, carpentieri, calafati, fabbri, in una forte simbiosi tra costa ed entroterra.

I Camargia di Atrani antesignani degli armatori amalfitani 

Prime tracce della societas maris denominata colonna si possono riscontrare in un documento del 995, dal quale si rileva che tre membri della famiglia Caramargia di Atrani si trovavano contemporaneamente ad navigandum (in navigazione) nelle acque del Mediterraneo, per un lungo viaggio commerciale, come prova indirettamente la data di pieno inverno del 15 gennaio, la quale indica una partenza databile almeno alla primavera precedente. La stirpe, sebbene appartenesse al ceto dei mediocres, era tuttavia imparentata con una concittadina famiglia aristocratica di origine matriarcale (de domina Cali). I tre rappresentanti in navigazione dovevano far parte di una colonna, di cui potevano al massimo detenere 8 carati ciascuno.

La suddivisione dell’Italia intorno all’anno Mille

Le autostrade del mare medievale: Amalfi-Sicilia-Ravenna

Un contratto del 1105, stipulato il I marzo, offre informazioni più dettagliate a riguardo di una societas maris fondata sulla colonna. Sergio Zinziricapra di Ravello e Gregorio de domino Tauro di Atrani consegnavano il nabidium di loro proprietà al nauclerius (nocchiero) Costantino Castaniola, imbarcandosi con lui, per effettuare un viaggio mercantile da Amalfi in Sicilia e dalla Sicilia a Ravenna. 

Il primo contratto collettivo di lavoro per i naviganti 

Essi assicuravano che il loro nabidium era bene attrezzato con due timoni, tre alberi, tre antenne, tre vele, ancore, funi, sartìe, barca; la sua lunghezza doveva raggiungere i 22,50 metri e doveva, inoltre, avere un cassero a poppa. I due socii proprietari della nave assegnavano al nauclerius 400 tarì, con i quali questi avrebbe dovuto pagare l’equipaggio e che avrebbe restituito loro al ritorno dal viaggio, scomputandolo dal lucrum (guadagno). A Costantino sarebbe spettata una parte dell’utile più un’altra parte per la sua mansione de nauclerato; una terza parte toccava al proprio figlio, il quale partecipava alla società mediante 60 cantari siciliani di lana.  Così la colonna in tal modo stabilita prevedeva una ripartizione degli utili secondo la seguente scansione: 21 carati a Sergio Zinziricapra e a Gregorio de domino Tauro; 3 carati a Costantino Castaniola e a suo figlio. Se l’equipaggio, come di norma in questo caso, fosse stato costituito da quindici nautae, allora ognuno di loro avrebbe avuto un gagium di circa 27 tarì, una somma non trascurabile da capitalizzare per unirla agli introiti della produzione agro-alimentare derivata dai casali tenuti in colonìa dalle loro famiglie e per acquisire in seguito proprietà fondiarie disponibili. 

I compagnoni e la divisione dei dividendi 

La colonna era detta così, poiché, all’atto della sua dichiarazione nella Curia marittima, i nomi dei componenti, indicati come compagnoni, venivano scritti in colonna. Compagnoni erano i soci caratisti, il patronus, il nauclerius, i nautae, lo scriba (scrivano di bordo). I socii caratisti partecipavano alla colonna mettendo a disposizione capitali o merci; nel primo caso 1 parte della nave valeva 5 once (= 150 tarì), nel secondo 10 salme (= 80 tomoli = 222 Kg.). In base al valore monetario della parte e in considerazione del fatto che la nave era costituita da 24 parti, allora l’intera nave doveva valere 3600 tarì.  Il patronus si trasformava da padrone della nave in esperto capitano, eccezion fatta per i patroni de carate, che erano proprietari dell’imbarcazione. Le prerogative del capitano sono espressamente indicate dalla Tabula:

Cap. 1: richiede la prestazione d’opera ai marinai;

Cap. 4: dichiara di quante parti consta la nave;

Cap. 7: è nominato dai patroni de caratis de navigio;

Cap. 10: alla partenza deve dichiarare la colonna, la merce, il denaro e la destinazione ai soci e ai marinai;

Cap. 11: non deve assumere per la colonna il trasporto di merci altrui;

Cap. 13: deve ricevere 10 grani (= 0,5 tarì) al giorno, quando resta a terra per la società;

Cap. 18: non deve assumere o estinguere prestiti senza la volontà della maggioranza dei marinai o dei soci (nel primo caso se si tratta di noleggio della nave a terzi);

Cap. 23: al termine del viaggio deve rendere conto in Curia;

Cap. 28: se la nave fosse presa, deve riscattarla con il fondo comune;

Cap. 29: non deve portare sulla nave merce del valore superiore ad 1 oncia (= 30 tarì), altrimenti l’utile da essa derivato sarebbe diviso tra i compagni;

Cap. 30: deve far registrare la colonna negli atti della Curia;

Cap. 44: deve recuperare quanto perduto della nave o del capitale sociale;

Cap. 66: deve mostrare la colonna ai marinai uscendo dal porto;

Cap. 15: se tenta la fuga mentre è prigioniero, deve pagare il doppio del riscatto pattuito per la sua liberazione.

Così il patronus (capitano) era il massimo rappresentante ufficiale della colonna. Nel corso della navigazione lo coadiuvava il nauclerius, nocchiero o pilota, il quale riceveva l’anticipo (naucleratum) previa comunicazione del patronus alla colonna (cap. 9), come accadeva pure per lo scriba. Questi aveva la funzione di pubblico notaio ed era lo scrivano di bordo, per cui era tenuto al giuramento presso la Curia (cap. 25). Se restava a terra per interessi della società, riceveva 7 grani (= 0,35 tarì) al giorno (cap. 13). A Venezia il patronus non era affatto il capitano della nave, riservandosi comunque il compito di sceglierlo; egli provvedeva a rifornire la nave di persone e di materiali. Essendo i socii caratisti della società di colonna il risultato dell’evoluzione dei marinai-contadini, ricordando le proprie origini, migliorarono le condizioni dei nautae ingaggiati al loro servizio. In primo luogo li consideravano come loro compagnoni, indicandoli nella lista della colonna; pertanto, condividevano con i socii alcune prerogative:

Cap. 14: se il nauta o il socius è catturato dai pirati, riceverà comunque la quota; se il nauta o il socius è ferito mentre difende la nave, riceve le spese ordinarie, quelle per il medico e la quota;

Cap. 15: se il nauta o il socius è ammalato, riceve la quota e le spese ordinarie; se è catturato, dev’essere riscattato dalla società; se è derubato  mentre opera per la società, dev’essere risarcito dalla società;

Cap. 16: se il nauta o il socius tenta la fuga mentre è prigioniero, perde la sua parte;

Cap. 60: la richiesta della paga da parte del nauta o della quota da parte del socius non dev’essere fatta per iscritto.

Ai soli nautae venivano riferiti altri capitoli:

Cap. 45: se perde roba e non può provarne il valore, la colonna gli deve risarcire 6 tarì per il solo abbigliamento;

Cap. 51: se la nave rientra entro 24 giorni a causa di tempo atmosferico avverso, non  riceve la paga;

Cap. 52: se la nave naufraga o è catturata, dev’essere retribuito per il tempo in cui ha prestato servizio;

Cap. 53: se è catturato, ferito o morto al servizio della nave, non deve restituire denaro da escomputare;

Cap. 56: deve dormire sempre sulla nave, altrimenti resterà in servizio un giorno in più per ciascuna notte in cui ha dormito a terra, oppure avrà una diminuzione nella paga ad arbitrio del patronus;

Cap. 57: non deve allontanarsi dalla nave senza permesso;

Cap. 58: può allontanarsi dalla nave quando questa è in riparazione.

Così tra le forme consuetudinarie previste dalla Tabula si evidenziavano l’assistenzialismo e la previdenza sociale, che anticipavano le moderne società di assicurazione marittima. Appaiono evidenti elementi di democrazia sociale collegati alla pratica de jectu: in caso di necessità del getto in mare di parte del carico, a causa di tempesta o di attacco nemico, la decisione veniva presa a maggioranza tra il patronus e i compagnoni (cap. 47); nel caso del trasporto di merce a nolo, il patronus doveva consultarsi con i mercanti proprietari e se questi, nonostante l’evidenza della necessarietà del jetto in mare, si opponessero, allora il patronus poteva procedere insieme ai marinai (capp. 48 e 49).

La Tabula rivela l’esistenza di un’altra forma di societas maris, nella quale i socii della colonna investivano capitali e merci, mentre altri erano i proprietari della nave (patroni de caratis de navigio) (cap. 54). Questi ultimi corrispondevano ai caratisti, per cui erano tenuti al pagamento per la riparazione della nave (cap. 20) prima della partenza o nel corso del viaggio; se il danneggiamento fosse avvenuto in corso d’opera o se l’imbarcazione fosse perduta, allora la spesa per la riparazione o per il riacquisto sarebbe stata affrontata dall’intera società (capp. 19 e 21). Naturalmente i caratisti potevano vendere la loro parte che avevano nella proprietà della nave (cap. 8).

Un diario di bordo

Rientrata la nave ad Amalfi, dopo aver compiuto tutte le operazioni di compravendita, prima di sciogliere la colonna, caratisti, compagnoni, patronus e scriba si recavano presso la Curia marittima. Lì, alla presenza dei consules al tempo del ducato indipendente (954-1131) e del prothontinus, dello iudex e del notarius dal regno normanno (1131) in poi, lo scriba consegnava il diario di bordo (quaternus), sul quale aveva annotato il resoconto del viaggio. Quindi, pagati patronus, nauclerius, scriba e nautae mediante l’imprumptum stabilito e come saldo dell’avantagio già versato alla partenza, si procedeva, tolte le altre spese, alla ripartizione degli utili tra socii caratisti. I consules controllavano se durante il viaggio mercantile si era conseguito un ulteriore utile da distribuire tra tutti i compagnoni; se qualcuno di essi l’avesse procurato in particolare, allora a lui sarebbe spettata una maggioranza della quota (cap. 12). Si conservava la parte che sarebbe toccata al compagnone restato a terra per utilità della colonna e che non aveva potuto riprendere il viaggio, purché non fosse sbarcato per motivi personali (cap. 46). Ai consules spettava, per il loro impegno professionale di magistrati, come onorario una somma calcolata in base alle parti della nave e per ogni salma di portata (cap. 40).

L’outlet della solidarietà 

La rivoluzione socio-economica amalfitana trovava compimento in una manifestazione di solidarietà municipalistica e di mutuo soccorso: “Jtem de qualunque mercantia, che si vende alle Città, il cittadino sopravvenga al mercato, può, et deve havere quella mercantia per quello prezzo propio, per lo quale l’have havuto lo mercante, quando è necessario per suo uso, et de sua fameglia” (cap. 65). Questo capitolo della Tabula risulta essere di difficile interpretazione. Se lo interpretiamo alla lettera, come ha fatto Senigallia, allora dovremmo intenderlo nel seguente modo generico: “Quando una merce si vende, in città forestiera, il cittadino che vi si trova e che ne abbia necessità per uso suo e della sua famiglia, deve averla al prezzo, al quale l’ha acquistata il mercante“. Ma perché inserire nel codice amalfitano una norma così generica? A tal proposito Antonio Guarino propone una diversa interpretazione di tipo non letterale ma esplicativo: prima che la merce fosse caricata per essere venduta in terra straniera, se un cittadino la richiedeva per necessità personale e della sua famiglia, allora l’avrebbe dovuta pagare a prezzo di costo.

I ravellesi che rivestirono Boccaccio 

In considerazione di un episodio letterario, comunque fortemente realistico dal punto di vista storico, ci permettiamo di esprimere una terza lettura. Ci viene, a tal uopo, in soccorso la novella IV della II giornata del Decameron di Boccaccio, quella del mercante ravellese Landolfo Rufolo. Questi, raggiungendo Trani da Corfù in condizioni disagiate per quanto riguardava l’abbigliamento, fu rivestito gratuitamente dai suoi concittadini ravellesi ivi residenti per motivi mercantili. 

Decameron di Giovanni Boccaccio

Quindi, tenendo presente che il capitolo 65 si riferisce a mercanzia venduta alle Città, sicuramente straniere e non del ducato amalfitano, allora è logico considerare il mercato amalfitano ivi organizzato, dove vi doveva essere una colonia virtuale, nel quale sarebbe giunto un cittadino, anch’egli amalfitano, che avrebbe chiesto per sé e per la sua famiglia una merce di assoluta necessità.Ecco che allora sarebbe venuto fuori lo spirito socialistico amalfitano: l’amalfitano richiedente all’amalfitano venditore avrebbe pagato quella merce al prezzo di costo, per cui il mercante connazionale avrebbe solidalmente rinunciato al lucro. 

Rate con interessi, “problema’ millenario 

Nei rapporti commerciali era previsto il pagamento dilazionato, che naturalmente faceva crescere il costo della merce. Il capitolo 64 della Tabula prevede, a tal proposito, l’affitto delo cagno (l’aggio del cambio): se il compratore pagava con buon argento in contanti, di conseguenza doveva ottenere uno sconto di 4 grani per oncia (0,7%).

Amalfi “contro” Ravello: i divide et impera dei Normanni 

Una classe di mediani, corrispondente ai mediocres gaetani e amalfitani, esisteva anche a Napoli nell’XI secolo. Quando il duca Sergio IV rientrò a Napoli nel 1029, dopo che due anni prima era stato cacciato per aver imposto una sorta di signoria feudale, stabilì il celebre pactum Sergii con nobiles e mediani della città, mediante il quale concedeva la libertà personale con il diritto alla proprietà e al libero commercio e nel contempo s’impegnava a rispettare le franchigie dei mercanti e di non introdurre nuove consuetudini.  Al tempo del governo amalfitano della ducissa et patricissa Maria e di suo figlio Mansone II (1034-1038), sostenuto dall’esterno dal rispettivo fratello e zio Pandolfo IV principe di Capua, furono aggregati al conventus plenarius ducale esponenti dei mediocres. In effetti i due dinasti amalfitani vollero imitare lo stesso Pandolfo, quando nel 1027 divenne signore di Napoli con l’appoggio dei mediani napoletani.  Il sistema del divide et impera fu applicato in seguito anche dal duca normanno Ruggero Borsa per dividere l’antica classe dominante nel ducato dei nobiliores amalfitani e atranesi dall’emergente ceto dei domini ravellesi, che, come vedremo più avanti, erano il risultato dell’evoluzione sociale dei mediocres.  Gli esponenti del ceto medio del ducato amalfitano cominciarono a imitare i costumi dell’antica aristocrazia, monacandosi come vecchi mercanti alla fine della loro esistenza terrena, destinando propri rampolli al chiostro o al clero secolare, fondando chiese d’impronta patrizia. 

Consuetudines Civitatis Amalfie (prefazione Antonio Guarino)

In terra come in mare, le ‘consuetudines’ dei tramontani 

Le Consuetudines Civitatis Amalfie, oltre alle societates maris di commenda, fanno riferimento pure alle societates terrae. Anche queste, come la commenda, erano costituite da due socii: uno metteva il capitale, l’altro lo faceva fruttare, procurando il lucrum, vendendo merce che trasportava nei luoghi di vendita via terra; la divisione degli utili avveniva per metà. Queste società, finora poco note alla storiografia, furono non meno importanti rispetto a quelle marittime. I protagonisti furono segnatamente ravellesi, scalesi e tramontani. Essi, forse sin dalla fine del X secolo, organizzavano carovane di asini ben bardati, la cui soma era formata dalla merce che portavano a vendere nei luoghi di destinazione: i centri della Puglia. Si trattava perlopiù di legna e di manifatture tessili locali, tra cui la caja malfetanesca, forse un copricapo femminile.

Mappa della città antica di Melfi, provincia di Potenza, Basilicata, al confine con la Puglia

Valico di Chiunzi, il ‘casello’  medievale delle carovane 

La direttrice seguita dalle carovane era la seguente: Ravello, Scala e/o Tramonti – Valico di Chiunzi – Nocera Superiore – Avellino – Benevento (dove gli scalesi istituirono una numerosa colonia virtuale) – Melfi – Puglia. In particolare, nel 1044 i mercanti ravellesi fondarono a Melfi il monastero di S. Benedetto de Vultu, che divenne una stazione di rifocillamento per loro che si recavano in Puglia. Dai centri pugliesi importavano grano, sale, vino e olio, che poi rivendevano nell’ambito del ducato amalfitano. Cominciarono poi alcuni di loro a stabilirsi gradualmente nelle principali città pugliesi, a Bari, a Bitonto, a Brindisi, a Barletta, a Molfetta, a Bisceglie, a Trani, a Foggia, a Troia, a Monopoli, a Giovinazzo, a Putignano. Dai porti pugliesi, in particolare da Brindisi, salpavano per raggiungere Costantinopoli, allo scopo di importare stoffe pregiate e oggetti artistici o di oreficeria, per poi rivenderli nei mercati meridionali e adriatici. Le vie per raggiungere il grande emporio bizantino erano due:

  1. la rotta marittima attraverso le isole ioniche ed egee;
  2. raggiunta da Brindisi via mare Durazzo, dove risiedeva una folta colonia amalfitana, si proseguiva attraverso la Via Egnatia, si toccava Adrianopoli e quindi si raggiungeva Costantinopoli.

Chiese, monasteri e vescovi: merito dei soldi dei mediocres 

Queste relazioni commerciali favorirono l’arricchimento dei mediocres mercanti, che edificarono numerose costruzioni, fondarono chiese e monasteri, organizzarono una dotta Chiesa locale di presbiteri, che divenne ben presto il nucleo principale del territorio. Così l’acquisito merito ecclesiastico e religioso fece ottenere alle Chiese di Scala e di Ravello il riconoscimento pontificio dell’elevazione a sedi vescovili. Di conseguenza le località in cui si trovavano assumevano l’intitolazione di civitates e si consolidavano in forma urbana cinta di mura e fortificata da castelli. Nel loro ambito i ricchi mediocres davano vita ad un consistente patriziato di domini. Così il ceto dei mediocres assumeva la funzione di crogiuolo nel quale si forgiava il patriziato dei domini.

Ravellesi e scalesi, banchieri degli Angiolini di Napoli 

Grandi capitalisti divennero ravellesi e scalesi, pronti ad esser mutuatores della corona angioina di Napoli, alla quale prestavano forti somme a interesse per finanziare la sua politica militare. La loro affermata fama di abili maneggiatori di denaro li fece diventare secreti, procuratores e portulani delle terre regnicole di Puglia, di Sicilia e di Calabria, ricevendo così l’appalto delle imposte regie. Le zecche di Brindisi, di Messina e di Napoli furono affidate a loro per la coniazione dell’aureo augustale di Federico II, pari a 7,5 tarì, nonché dei carlini d’oro e d’argento (1 carlino d’oro = 5 tarì d’oro = 10 carlini d’argento) dei re angioini. Erano, pertanto, considerati abili esperti di monetazione, maestri zecchieri, coniatori, assaggiatori di monete

Aureo augustale di Federico II

Alcuni ravellesi, esponenti soprattutto delle ricchissime famiglie ravellesi Rufolo e de Marra, si montarono la testa, per cui si comportarono da estorsori; ma osarono ancora di più: tramarono, forse, a favore dell’avvento aragonese, con lo scopo di poter diventare viceré del regno di Sicilia. Scoperti, furono inesorabilmente annientati o severamente puniti da Carlo II d’Angiò.

I Re cattivi pagatori, una storia millenaria 

La nostra mente di storici è però pervasa da un cocente dubbio: potrebbe esser stata l’azione del re nei loro confronti una sorta di anticipazione di quello che sarà qualche decennio dopo (1312) il Processus contra Templarios del re di Francia, stretto parente degli Angiò di Napoli, Filippo il Bello? Cioè, potrebbe Carlo II aver impiantato un suo processo contro questi doviziosi e potenti ravellesi, considerandoli proditores (traditori), sulla base di alcuni più o meno infondati sospetti e di accuse montate ad arte con la complicità di cittadini pugliesi di Trani e di Barletta? E’ possibile allora congetturare che il monarca non volesse più assolvere ai mutui contratti e nel contempo allungare le mani sulle enormi ricchezze dei Rufolo e dei de Marra? Egli si fece rivelare sotto tortura dal carcerato Matteo Rufolo i grossi capitali che costui teneva in deposito cautelativo presso il convento di Assisi e presso la sede dei cavalieri di san Giovanni di Gerusalemme a San Giovanni d’Acri, con lo scopo di appropriarsene, giustificando la sua azione con la presunzione che si trattasse di denaro estorto ai pugliesi nel corso della funzione di secrezìa. Ci chiediamo come avrebbero potuto ordini monastici e cavallereschi di quell’entità e dirittura morale collaborare ad una tale azione malavitosa. E’ chiaro che la serie di domande che ci siamo posti presentano tutte un forte senso retorico: hanno già in sé la risposta. 

La storia dell’antica famiglia Rufolo

La sbruffoneria dei Rufolo e il finto spreco dell’argenteria 

Resta nell’immaginario collettivo, quale ultimo bagliore della potenza dei Rufolo, immortalata la scena dei lauti pranzi che offrirono a re Roberto d’Angiò nella loro dipendenza di Marmorata: per sfoggiare la loro opulenza, ad ogni portata comandavano ai loro servi di gettare a mare le posate d’argento, facendone portare a tavola di nuove. Ma la scena nascondeva un trucco: nel mare sottostante erano state preventivamente allestite reti; così, alla partenza del monarca, l’argenteria veniva tirata su, pronta per una nuova sceneggiata.

SOCIETAS MARIS – CONTRATTO DI COMMENDA

Tabula Amalphitana o Tabula de Amalpha
  1. SOCIUS STANS – ACTOR mette a disposizione il capitale (capitania).

SOCIUS TRACTOR – PATRONUS proprietario della nave, effettua il viaggio mercantile e divide gli utili (lucrum), riservando a sé 1/4 e dando all’actor i 3/4; se partecipa con propri capitali o merce, allora la divisione avviene per metà.

Nauclerius, nautae, scriba ricevono il gagium, che prevede un anticipo (avantagio).

2) CREDITOR

presta il capitale (capitania) ad usura (de nautico foenore).

DEBITOR – ACTOR

prende in prestito il capitale (mutuum) e lo restituisce alla data stabilita insieme all’interesse (labor) – montante = capitale+interesse (capitania+labor). Mette a disposizione il capitale preso in prestito.

TRACTOR – PATRONUS

proprietario della nave, effettua il viaggio mercantile e divide gli utili (lucrum) con l’actor nel modo indicato al punto 1.

L’equipaggio (nautici) è trattato come al punto 1.

SOCIETAS MARIS – CONTRATTO DI COLONNA

Compagnoni = socii et nautae (i loro nomi sono messi in colonna)

Patronus = capitano della nave

Nauclerius = nocchiero

Scriba = scrivano di bordo

Patroni de caratis de navigio = proprietari di parti della nave (carati = parti della nave; totalità = 24)

Mercatores = mercanti che noleggiano la nave (nauliczare navem)

I mercatores pagano il nolo ai patroni de caratis, che dividono tra di loro la somma in parti proporzionali ai carati posseduti.

I mercatores dividono tra di loro in parti l’utile procacciato dalla vendita della merce.

Un contratto del 1386 contiene insieme elementi di commenda, di colonna e di nolo: alcuni patroni de caratis di Positano noleggiarono la loro nave ad un genovese. Lo scriba, fratello di uno dei proprietari, accoglieva in accomanda il capitale di un nobile scalese in relazione all’acquisto e alla rivendita di frumento, al quale assicurava, in aggiunta ai 3/4 che gli spettavano in virtù della commenda, il lucrum di 1 carato (1/24); l’acquisto veniva effettuato in Sicilia e la rivendita a Napoli o in Costa d’Amalfi; intanto la nave avrebbe navigato verso la Puglia, Gaeta, Pisa e la Catalogna per assolvere alle richieste del noleggiatore.

PER APPROFONDIRE: Le amministrazioni e le leggi delle Repubbliche marinare

Foto di copertina: Amalfi antica, Marina Grande (foto archivio Taiani)

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