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Costiera amalfitana, il primo deputato che inaugurò la Casta: se mangio io il popolo è sazio

Ultimo aggiornamento domenica, 21 Febbraio, 2021   18:16

La storia della politica (dello “stato liberale – 1861-1922) raccontata da Giuseppe Gargano, con un occhio attento al ruolo di Camillo Benso Conte di Cavour, al Regno delle Due Sicilie, all’unificazione dell’Italia, alla destra e alla sinistra storica. E il racconto di un “episodio” accaduto nel collegio di Amalfi

La sconfitta piemontese nella I Guerra d’Indipendenza, lo spegnimento di tutte le rivolte e rivoluzioni del 1848, l’abdicazione di Carlo Alberto a favore di Vittorio Emanuele II sembravano aver, ancora una volta, segnato, come la caduta di Napoleone, la fine della sua era e l’avvento della Restaurazione del 1815, la rivincita della reazione. 

Ma qualcuno tramava nel silenzio e, come un ragno silente e operoso, tesseva una rete, la cui solidità politica avrebbe mostrato una diramazione internazionale per favorire una tanto attesa realizzazione nazionale. Camillo Benso conte di Cavour aveva assunto l’incarico di primo ministro del governo piemontese, pronto a governare secondo lo Statuto Albertino. 

Egli associò il liberalismo conservatore col liberismo, particolarmente attento all’industrializzazione del Piemonte. In politica estera era convinto che la restaurazione del Congresso di Vienna aveva ormai tempi contati e che il problema dell’unità d’Italia andava inquadrato in un gioco di equilibrio europeo. In accordo col primo ministro Massimo D’Azeglio e col sovrano riuscì a far prevalere i moderati nelle elezioni per la Camera dei Deputati, riuscendo a isolare i democratici e a far alleare un gruppo di questi ultimi, i liberal-democratici, con i conservatori, consentendo l’approvazione delle leggi Siccardi d’impronta decisamente anti-clericale. Queste leggi colpivano la Chiesa nel regno di Sardegna, abolendo alcuni privilegi ecclesiastici: il controllo assoluto sul matrimonio, la censura preventiva sui libri, il diritto d’asilo, il foro ecclesiastico. 

Cavour divenne presidente del consiglio grazie a un accordo con Urbano Rattazzi, capo dei liberal-democratici. Questa alleanza difese il sistema parlamentare da possibili tentazioni assolutistiche influenzate dal colpo di Stato di Napoleone III in Francia (1851). 

Alcuni hanno accostato il sistema partitico piemontese a quello inglese contemporaneo; l’accostamento non è valido, poiché in Inghilterra i tories erano conservatori aperti al rispetto della libertà e i wighs liberali anch’essi favorevoli alla monarchia; invece in Piemonte i moderati erano liberal-conservatori e i democratici erano repubblicani. 

Cavour aborriva il federalismo di Gioberti, come pure la rivoluzione democratica. Sapeva che bisognava inserire la causa italiana nei giochi europei. Era un tenace sostenitore del tecnicismo e credeva nella funzione principale del parlamento. 

Così ampliò la rete ferroviaria, fece realizzare un sistema all’avanguardia d’irrigazione dei campi coltivati, rimodernò il porto di Genova, stabilì a La Spezia una consistente base navale. Sul piano politico prendeva posizione contro il nascente socialismo: “Si cadrebbe in gran errore se si reputasse il socialismo come un sistema affatto stravagante ed assurdo fondato solo sopra idee chimeriche”. Ne segnalava, inoltre, la pericolosità: “Questo principio è il seguente: sostituire lo Stato, la società al possessore del capitale privato nella grande opera della produzione, dell’accumulazione della ricchezza. Se il sistema fiscale di un paese fosse tale da rendere la creazione dei capitali impossibile ai privati, esso sarebbe fatalmente condotto ad affidare questa creazione al potere sociale, al governo, e perciò a sostituire la società ai privati nell’opera della produzione; ciò che è appunto lo scopo finale a cui mirano i socialisti”. 

Egli non parla espressamente di idee marxiste, ma del socialismo in generale; quindi si riferisce, riflettendo bene sulle sue espressioni, principalmente al riformismo socialista, esistente indipendentemente da Marx (cfr. il capitolo Socialismo), che senza rivoluzione, bensì con leggi approvate democraticamente, voleva sostituire il capitalismo privato con un intervento diretto del pubblico nell’economia. 

Cavour in una antica riproduzione

Così sin dal 1848, al primo apparire del movimento socialista, Cavour aveva compreso la minaccia che avrebbe apportato al sistema liberale, a causa delle sue pericolose idee di statalizzazione dell’economia. Al fine di rinforzare gli ormeggi contro un’eventuale tempesta socialista e proletaria, egli fondò, sulle idee liberali e liberiste, la Destra Storica, ponendola in sintonia con il conservatorismo inglese. Stabilì, inoltre, in un’ottica decisamente europea, trattati di libero scambio con Francia, Inghilterra e Belgio, i paesi più progressisti del continente. Egli faceva comprendere che “il più potente alleato della scuola socialista, ben inteso nell’ordine intellettuale, sono le dottrine protezioniste”; quindi i regimi assolutistici sono visti da lui come la vera motivazione di una possibile movimentazione delle masse sotto la guida dei capi socialisti. Egli aveva, in tal modo, anticipato l’errore di lettura marxista del salto storico, cioè il passaggio diretto al socialismo reale da parte degli Stati assoluti e feudali, invece che delle nazioni liberali e liberiste, come crede il filosofo ebreo-tedesco. “Voi credete vostro diritto e dovere d’intervenire nella distribuzione del capitale….nella regolamentazione del capitale; ma perchè non intervenire per regolamentare l’altro elemento della produzione, il salario? Perché non organizzare il lavoro?”

Queste affermazioni di Cavour sembrano anticipare futuri conflitti sociali tra capitale e lavoro: di fronte a una possibile distribuzione di utili, come già avveniva nel Medioevo per i contratti marittimi di colonna amalfitani e di compagnia veneziani, contrapponeva un’organizzazione del lavoro e una revisione dei salari. 

Le scelte politiche dell’Austria e dei Borbone determinarono la crescita dei consensi per la politica cavouriana. Nel Lombardo-Veneto furono aumentate le imposte alla borghesia e ridate ai contadini, allo scopo di impedire un’alleanza anti-austriaca tra i due ceti. Fu, inoltre, impedita una collaborazione economica tra produttori e Stati del Centro-Sud. 

Nel regno delle Due Sicilie l’economia era prettamente agraria, condizionata dalla mancata modernizzazione dei suoi mezzi di produzione, dallo sfruttamento dei contadini, dal disagio della borghesia, la quale cominciava a strizzare l’occhio al modernismo piemontese. Nonostante questa situazione in atto, i contadini furono riluttanti nell’accettare il tentativo mazziniano condotto da Carlo Pisacane, che finì nel bagno di sangue dei trecento giovani e forti

Le masse contadine erano fortemente condizionate e intimorite dalle tre F di Ferdinando II: feste, farina e forca. Il tentativo dello sbarco di Sapri (1857) non doveva essere un caso isolato: infatti contemporaneamente sarebbero dovute insorgere Genova e Livorno, per favorire il ritorno a Napoli di una monarchia murattiana filo-francese. 

Tutto questo era inviso alla politica di Cavour, che fu lesto a dimostrare alle potenze europee la sua netta distanza dalle idee mazziniane. 

Il regno delle Due Sicilie non era poi così arretrato come ce lo hanno fatto apparire alcuni storici del passato: infatti Ferdinando II, oltre al tratto di ferrovia Napoli-Portici, che rimase pur sempre un episodio isolato riservato alla famiglia reale, istituì l’Osservatorio vulcanologico del Vesuvio, attrezzato con strumentazione d’avanguardia, favorì lo sviluppo tecnologico delle cartiere del Fibreno, fece costruire la strada costiera Amalfi-Salerno (1853). 

Intanto Cavour cercava di inserire il regno di Sardegna in un quadro di politica europea. E l’occasione propizia non venne a mancare; essa fu rappresentata dalla Guerra di Crimea. La Russia attaccava la Turchia, con la motivazione di annientare l’islamizzazione di una terra un tempo bizantina e ortodossa, ma con la vera intenzione di trovare uno sbocco nel Mediterraneo, una politica strategica che sarà perseguita in futuro anche dall’Unione Sovietica, la quale cercò di penetrare, senza riuscirci, indirettamente in Jugoslavia, in Italia, in Grecia. L’Austria rimase neutrale, poiché aveva impegnato il grosso delle sue truppe verso l’Ungheria e i possedimenti italiani, temendo improvvise rivolte. Cavour offrì la sua collaborazione militare a inglesi e francesi, che intervenivano per bloccare   l’avanzata russa, inviando un corpo di spedizione di 15000 bersaglieri al comando del generale Alfonso La Marmora

La vittoria degli alleati gli permise di sedere al tavolo dei vincitori al Congresso di Parigi nel 1856. 

Mentre sua cugina la contessa di Castiglione entrava nel letto di Napoleone III, egli sollevava la questione italiana, mediante la quale accusava pubblicamente l’Austria di essere l’artefice delle tendenze rivoluzionarie e repubblicane a causa dell’occupazione dei ducati dell’Italia centrale e dello Stato Pontificio, violando le decisioni del Congresso di Vienna

In tale consesso il Piemonte apparve quale difensore e garante degli interessi della borghesia liberale della penisola italiana. Torino in quel momento era il rifugio sicuro d’asilo politico per molti liberali italiani. 

Lì nel 1857 nacque la Società Nazionale, che aveva quale motto “Italia e Vittorio Emanuele”, mentre sui muri di Milano appariva la scritta “VIVA VERDI!”, che, oltre a inneggiare al celebre musicista, aveva anche il recondito significato di “VIVA VITTORIO EMANUELE RE D’ITALIA!”.

A quella società aveva aderito il repubblicano Giuseppe Garibaldi, con la carica di vice presidente; così il braccio si staccava dalla mente: l’eroe dei Due Mondi abbracciava la causa unitaria monarchico-costituzionale, mentre Mazzini veniva isolato e il sogno della confederazione repubblicana e democratica di Cattaneo svaniva per sempre.

Nel 1858, mentre Ferdinando di Borbone si faceva ritrarre in una storica foto insieme a suo figlio Francesco e alla sua famiglia, a Plombières Napoleone III e Cavour provavano a disegnare il futuro dell’Italia: una confederazione di Stati presieduta dal papa, che teneva il Lazio, e costituita a nord da un regno sotto Vittorio Emanuele comprendente lo Stato sabaudo più i ducati e fino all’Adriatico, al centro da un regno formato dalla Toscana e da buona parte dell’Emilia-Romagna, a sud del regno delle Due Sicilie

La notizia del progetto politico giunse alle orecchie di Francesco II di Borbone, che, entusiasta, fece issare su di un’imbarcazione ancorata a Massa Lubrense un tricolore caricato dal giglio d’oro borbonico, come prova una litografia del 1859. Ma l’idea nascosta dell’imperatore francese era ben diversa: egli voleva porre sul trono di Napoli suo cugino Luciano Murat e in Toscana suo nipote Girolamo Napoleone; così ambiva emulare la politica di affermazione familiare sui troni d’Europa del suo potente predecessore zio Napoleone Bonaparte. Per realizzare tale progetto, bisognava far guerra all’Austria; ma ciò era impossibile in virtù della Santa Alleanza, a meno che gli austriaci non avessero attaccato il Piemonte. Fu stabilito allora un accordo segreto, secondo il quale, una volta vinta la guerra, le terre settentrionali sottomesse all’impero asburgico sarebbero passate a Vittorio Emanuele e alla Francia sarebbero toccate Nizza e la Savoia

La provocazione fu subito attuata: arruolamento di corpi di volontari e fortificazioni lungo il confine tra Piemonte e Lombardia. Ma l’Inghilterra intervenne prontamente per scongiurare la guerra e impedire che si turbasse l’equilibrio europeo tra le nazioni. Si stava per organizzare una conferenza, alla quale avrebbero partecipato inglesi, francesi e russi, quando gli austriaci attaccarono il Piemonte. La reazione fu immediata da parte dei franco-piemontesi, che sbaragliarono le truppe nemiche anche con l’aiuto di volontari patrioti. Stavano ormai raggiungendo Venezia, quando giunse la notizia della rivolta di Toscana, Marche Romagna e Umbria e della loro richiesta di adesione al regno di Vittorio Emanuele. Allora Napoleone, timoroso di un intervento prussiano a sostegno degli austriaci, si affrettò a siglare l’armistizio di Villafranca, con il quale la Lombardia passava al regno di Sardegna. L’Austria, per tagliar fuori la Francia dalla politica italiana, propose una confederazione presieduta da Pio IX, della quale avrebbero dovuto far parte anche il Veneto austriaco. Anche questo gioco fu vanificato, mediante il plebiscito di annessione di Toscana ed Emilia al regno sabaudo; la Francia dovette accontentarsi di Nizza e della Savoia. Questa cessione creò una profonda delusione negli ambienti democratici e mazziniani; questi, insieme a nuovi elementi di idee socialiste, diedero luogo al Partito d’Azione, subito disposto ad accogliere l’appello, mercè la mediazione del siciliano Francesco Crispi, degli isolani che si erano ribellati al dispotismo borbonico e costretti a rifugiarsi sui monti.

L’unificazione dell’Italia.

L’appello dei patrioti siciliani fu ascoltato da Garibaldi, che subito entrò a far parte di un progetto militare e politico di conquista piemontese del regno delle Due Sicilie, delineato dagli inglesi e da Vittorio Emanuele con l’adesione dubbiosa di Cavour

Il generale, che nutriva in cuor suo l’idea della creazione di una repubblica democratica in Italia meridionale, salpò a titolo personale e delle sue camicie rosse con due barconi e poco più di mille uomini bene armati alla volta della Sicilia

Due vascelli inglesi erano in appoggio e protezione, mentre denaro della corona d’Inghilterra contribuiva al finanziamento della spedizione.

Ma perché gli inglesi, tradizionali alleati dei Borbone, ora li tradivano? Essi avevano il dente avvelenato contro Ferdinando II per non aver accettato la richiesta di partecipazione alla Guerra di Crimea; allora il ministro degli esteri Palmerston accusò i Borbone di essere filo-russi. Si aggiungevano, poi, gli interessi di gestione delle miniere di zolfo. 

Lo sbarco garibaldino riuscì alquanto facile, le vittorie campali furono rapide e fulminante la conquista dell’isola. L’esercito delle camicie rosse veniva rinforzato da giovani siciliani, i picciotti, e da truppe giunte dall’estero, tra cui gli ungheresi

I contadini si aspettavano la liberazione dall’oppressione dei signori latifondisti, ma furono subito delusi, soprattutto a seguito del massacro di Bronte e della proclamazione di Garibaldi, che si dichiarò dittatore in nome e per conto di Vittorio Emanuele II, che aveva inviato in Sicilia La Farina e Depretis; ma Francesco Crispi, esponente del Partito d’Azione, tenne in mano il governo provvisorio dell’isola. 

Pochi mesi dopo Francesco II dalla fortezza di Gaeta rivelava nel discorso ai suoi seguaci fedeli: “Mi preparava a garantire alla Sicilia istituzioni libere che consacrassero con un parlamento separato la sua indipendenza amministrativa ed economica”. Quella, purtroppo per lui, fu una decisione troppo tarda, quando ormai Peppino Garibaldi, come lo chiamavano i nobili napoletani, aveva preso la Sicilia

L’avanzata garibaldina procedette con altrettanta rapidità sul continente, favorita dai borghesi liberali e dagli ufficiali borbonici traditori, che tennero nel silenzio del fuoco 30000 cannoni. “Ho creduto di buona fede che il Re del Piemonte che si diceva mio fratello, mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo un’alleanza intima pe’ veri interessi d’Italia, non avrebbe rotto tutt’i patti e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazione di guerra”.

Con queste appassionate parole Franceschiello, come amavano chiamare il loro re i napoletani, denunciava la viltà di Vittorio Emanuele, manifestata da un attacco improvviso e scorretto. Faceva poi notare ai suoi sudditi la appena avvenuta dominazione straniera, dichiarandosi loro autentico re nazionale, nato a Napoli e parlante l’idioma napoletano: “Io sono napoletano”. E intanto veniva saccheggiato il tesoro dello Stato borbonico.

Intanto il re sabaudo, sospettoso di un imprevisto attacco garibaldino a Roma, con lo scopo di farla diventare capitale di una repubblica italiana centro-meridionale fondata sulla Costituzione della Repubblica e suscitare in tal modo l’intervento militare di Napoleone III, decise di scendere a meridione con il suo esercito per impedire che ciò avvenisse. Travolse l’opposizione militare pontificia, sollecitata dall’Austria per impedire l’unificazione nazionale, e obbligò con una stretta di mano Garibaldi a fare luogo e a cedergli il regno delle Due Sicilie.

Il 17 marzo del 1861 si riuniva a Torino il parlamento italiano, che proclamava Vittorio Emanuele II di Savoia re d’Italia. Cavour pronunciava il suo discorso da primo ministro del regno d’Italia, proclamando con anticipazione Roma capitale: il Tessitore aveva ultimato la sua tela. 

Dopo il massacro di Pontelandolfo si risvegliarono i filo-borbonici, ai quali si unirono i garibaldini delusi e i renitenti alla leva obbligatoria, che non volevano abbandonare con la forza per anni i campiche lavoravano per non danneggiare economicamente le loro famiglie. Nasceva così il fenomeno del brigantaggio, una stagione di eroica lotta contro l’invasore piemontese e contro i danni arrecati all’economia del Sud, una lotta che dovremmo chiamare guerra del brigantaggio. Questa opposizione rendeva chiaro che non si era concretizzata l’Unità d’Italia, bensì era avvenuta l’unificazione d’Italia, cioè la conquista della penisola da parte dei Savoia

Destra storica: il conservatorismo liberale

Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”, affermava Massimo D’Azeglio; tale affermazione attende ancora una risposta. Una unità d’intenti l’aveva raggiunta la borghesia terriera al Sud e parzialmente industriale al Nord, pronta a riscuotere i vantaggi dell’unificazione, per la quale si era battuta, una borghesia che da romantica del primo Ottocento ora si trasformava in verista

Massimo D’Azeglio

L’unificazione aveva procurato enormi spese, per cui il regno appena formato era in forte crisi economica e finanziaria. D’altronde le annessioni nella storia hanno sempre creato seri problemi: basti pensare all’annessione della DDR (Repubblica Democratica di Germania) da parte della Repubblica Federale Tedesca dei nostri tempi. 

I moderati eredi di Cavour, che diedero vita alla Destra storica, dovettero rimboccarsi le maniche per instaurare una politica interna di rigori e di sacrifici, che, per la natura stessa di quella compagine, dovette necessariamente pesare sulle spalle dei ceti più bassi. Infatti il liberal-liberismo fondava la sua ricetta di ripresa economica sulla drastica riduzione della spesa pubblica e sul favoritismo dell’imprenditoria. Gli eroi del risanamento del giovane regno d’Italia furono i liberal-moderati, tutti di estrazione piemontese e tutti allievi e seguaci del Tessitore: Bettino Ricasoli, Urbano Rattazzi, Luigi Carlo Farini, Marco Minghetti, Alfonso La Marmora, Quintino Sella, Giovanni Lanza, Massimo D’Azeglio

Il primo passo fu pagare le spese di guerra, sanare il debito pubblico degli Stati annessi, creare un’amministrazione politica ed economica nazionale. 

La borghesia richiedeva la facilitazione del libero scambio, per cui lo Stato realizzò entro il 1870 ben 4000 km. di ferrovie, mediante l’impiego di capitale privato da parte di società finanziate soprattutto da inglesi e francesi. Intanto l’industria italiana era notevolmente arretrata rispetto a quella di altri paesi europei. La politica tributaria, fondata sull’estensione della tariffa doganale piemontese a tutto il regno, produsse enormi danni al Meridione e alla sua industria ormai non più protetta da un governo locale. 

Le imposizioni fiscali, la coscrizione militare obbligatoria, l’odio del mondo contadino per la borghesia liberale, il desiderio nostalgico di una revanche borbonica furono le molle che fecero scattare il fenomeno del brigantaggio e della conseguente mai sopita questione meridionale

Per far cassa, lo Stato espropriò terre alla Chiesa e, insieme a proprietà demaniali, le vendette a prezzi stracciati: naturalmente gli acquirenti che fecero man bassa furono i capitalisti. Furono poi istituite tasse sul sale e sul macinato, precedute dall’imposta sulla ricchezza mobile

Dal punto di vista agricolo l’Italia era divisa in tre sezioni: il Sud con antichi retaggi feudali, dominato dal latifondo, dallo sfruttamento dei contadini, dalla mediazione della piccola e media borghesia terriera e assolutamente privo della moderna meccanizzazione; il Centro organizzato mediante la mezzadrìa, un contratto che prevedeva la divisione per metà dei prodotti tra il contadino-colono e il padrone, una forma di pre-capitalismo, nella quale il proprietario partecipava direttamente alla progettazione agricola, ma che non portava all’investimento di capitali; il  Nord, che organizzava ormai le aziende agricole di tipo capitalistico e impiegava mezzi meccanici moderni. 

Il latifondista feudatario del Meridione non s’interessava direttamente delle attività e della produzione delle sue smisurate terre, affidandone il compito a suoi uomini di fiducia. Accadeva così che personaggi come Mazzarò, partendo dal nulla, ma guidati da un’accanita e indomita scaltrezza nell’ottica della conquista della roba, riuscivano a rilevare l’immensa proprietà del nobile padrone, lasciandogli soltanto il blasone di pietra quale illusoria memoria di un passato glorioso, vittima ineffabile della fannulloneria. 

Così come accadde a quel “minchione” del barone ex datore di lavoro di Mazzarò. L’accanimento per l’accaparramento della roba era piuttosto sottile e non trascurava perfino i minimi dettagli: così si riscuotevano pagamenti in moneta d’argento e si effettuavano mediante carta-moneta. Si auspicava un’ascesa sociale che, una volta compiuta, lasciava comunque il parvenu nella condizione di buon uomo, come appare nella celebre Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta

Qualche altro finiva addirittura nella pazzia, distruggendo, prima di morire, tutto quello che aveva realizzato; ma questo è un caso estremo limitato alla lezione verista di Giovanni Verga. Altri tentavano di ascendere economicamente puntando su attività come la pesca e il commercio del pescato. 

Così si regolavano i tonnaroti e i caparrais delle tonnare della Costa d’Amalfi, così progettarono di fare i Malavoglia verghiani, che dovettero, però, accontentarsi del semplice riscatto della Casa del Nespolo. Diverse famiglie del Sud, a differenza dei personaggi dei romanzi e delle novelle veriste, una volta arricchitesi con il commercio e le attività produttive, pensarono bene di consolidare dal punto di vista sociale la loro ascesa economica: così puntarono sull’affermazione culturale, facendo laureare i propri esponenti in giurisprudenza, medicina o ingegneria e destinandone altri alla carriera ecclesiastica; anche questi ultimi erano uno strumento di acquisizione fondiaria: alcuni di loro svendevano proprietà ecclesiastiche ai propri parenti. Si realizzavano, inoltre, unioni matrimoniali tra famiglie del ceto imprenditoriale, con lo scopo di unire rendite e mezzi di produzione per rendere più consistenti proprietà e capitali: è il caso dei cartari amalfitani. 

Giovanni Verga

La letteratura del tempo, sulla spinta delle scoperte darwiniane e della psicanalisi, analizzate e meditate dal Positivismo, mise a fuoco l’obiettivo sulle realtà delle masse. Il Naturalismo in Francia colse di sorpresa il proletariato urbano nelle sue tristi vicende, mentre il Verismo in Italia mise in evidenza una vera e propria lotta per la sopravvivenza nelle campagne e sui litorali del Meridione. Una componente comune univa i paesi d’Europa: lo sfruttamento minorile concentrato soprattutto nelle miniere siciliane e inglesi, focalizzato molto bene da Cronin e da Verga. 

Secondo lo scrittore siciliano, tutti erano vinti: contadini e pescatori che cercavano inutilmente di progredire economicamente, borghesi che si affannavano nella carriera professionale o politica, aristocratici che cadevano nella noia. Troppo semplicistica e decisamente filosofica la conclusione vergiana; non erano tutti vinti, poiché vi erano anche i vincitori, coloro che materialmente gestivano vita privata e vita pubblica, che avevano raggiunto, in un certo qual modo limitato, il diritto alla felicità. Ma quel loro diritto si fondava sulla doverosa costrizione di ampie masse popolari. C’era allora chi, e non solo repubblicani e democratici, nel mondo liberale cominciava a interessarsi delle condizioni di quelle masse per migliorarle secondo fini umanitari, ma anche per calcolo politico.

Il Senato del regno restava di nomina regia, in virtù dello Statuto Albertino, mentre la Camera dei Deputati, composta da rappresentanti moderati della Destra storica, liberal-conservatori e liberal-democratici, tra cui mazziniani, della Sinistra storica; naturalmente gli appellativi Destra e Sinistra derivavano dalla posizione in cui sedevano negli scanni parlamentari rispetto al presidente, come consuetudine acclarata dalla Rivoluzione Francese. 

Dal 1861 al 1880 fu scelto il sistema elettorale maggioritario a doppio turno: risultava eletto al primo turno il candidato che otteneva 1/3 dei voti. Gli aventi diritto dovevano aver compiuto 25 anni e possedere un reddito di almeno 40 lire annue oppure di 20 lire ma con l’obbligo a saper leggere e scrivere. Votava, così, il 2% della popolazione regnicola. La situazione dei collegi uninominali subì la seguente evoluzione:

1861 (capitale Torino) = 443 collegi

1866 (capitale Firenze) = 493 collegi

1870 (capitale Roma) = 508 collegi

Nel collegio di Amalfi, che comprendeva l’intera Costiera da Vietri a Positano, fu spesso eletto il liberal-conservatore marchese Mezzacapo di Maiori. A riguardo di tale personaggio politico si narra un simpatico episodio. Essendo egli sindaco di Maiori, una rappresentanza di cittadini si recò da lui per sottolineargli lo stato di miseria e di fame in cui versava gran parte della popolazione, una condizione costiera che aveva dato luogo all’emigrazione verso le Americhe. 

Stemma famiglia Mezzacapo

L’onorevole, sindaco e marchese, così rispose alle pressanti richieste dei concittadini: “Non può assolutamente essere che il popolo ha fame. Chi sono io? Sono il sindaco, il primo cittadino che rappresenta il popolo. Ho mangiato? Allora ha mangiato tutto il popolo!”.

La politica estera di quegli anni fu improntata sull’annessione del Veneto al regno d’Italia. Pertanto, il governo La Marmora decise di allearsi con la Prussia in conflitto con l’Austria. Nonostante le sconfitte per terra e per mare, le vittorie di Garibaldi e dei prussiani sugli austriaci permisero all’Italia di sedersi sul tavolo dei vincitori per sancire la conclusione di quella che per gli italiani suonava come la Terza Guerra d’Indipendenza (1866). L’Italia riceveva il Veneto per mano di Napoleone III, al quale l’aveva ceduto l’Austria. 

Allora il regno di Prussia, che di lì a poco (1870) sarebbe diventato Germania, dopo aver annientato il Secondo Impero di Napoleone III e fatta definitivamente ritornare la repubblica in Francia, vedeva l’apparizione sulla scena politica del Partito Nazional-liberale, che andava a rinforzare il movimento conservatore al potere. 

In concomitanza con l’unificazione dell’Italia (1861), l’Austria procedeva anch’essa a una riforma costituzionale: venivano istituite una camera di nomina dell’imperatore e una eletta dai Landtage, che eleggevano i propri rappresentanti in proporzione alla ricchezza delle circoscrizioni elettorali. 

Nel 1867, con la concessione all’Ungheria dell’elettiva Camera dei Deputati e dell’ereditaria Camera dei Magnati, nasceva la duplice monarchia con due capitali, Vienna e Budapest, e un unico sovrano. Intanto i movimenti nazionali dei popoli soggetti creavano seri problemi: essi erano guidati nella Polonia austriaca dai magnati, in Croazia e in Romania dai contadini, in Cechia e in Boemia dai borghesi

Sinistra storica: la liberal-democrazia

L’annessione del Veneto al regno d’Italia (1866), la conquista di Roma e la sua elevazione a capitale (1870), il pareggio di bilancio (1875) rappresentavano il coronamento delle aspirazioni programmatiche della Destra storica. Restavano, però, le profonde piaghe della opprimente tassazione e l’irrisolta questione meridionale. Tali problematiche produssero la costituzione di un movimento politico eterogeneo, la Sinistra storica, composto dal Partito d’Azione e da liberal-democratici d’ispirazione monarchica, che aveva quale esigenza primaria l’alternativa, secondo la quale “il paese reale avesse un più rilevante peso in seno al paese legale”. 

L’aspirazione della politica italiana di quei tempi era la creazione di un bipartitismo di tipo inglese, considerata la più perfetta macchina della democrazia liberale; ma ciò non fu possibile, a causa delle forme eterogenee assunte specialmente dalla Sinistra.

Agostino De Pretis

Nel 1875 la coalizione di sinistra si presentava pubblicamente con un programma pronunciato da Agostino Depretis, puntualizzato sulle posizioni della borghesia progressista settentrionale, quindi per niente affatto comprensivo delle istanze e delle aspettative di tutti i gruppi componenti. I punti fondamentali del programma avevano, comunque, alcune aperture verso le classi subalterne: 

  1. allargamento del suffragio;
  2. abolizione dell’imposta sul macinato;
  3. istituzione di una scuola elementare laica, gratuita e obbligatoria;
  4. attuazione di più ampie autonomie locali.

Il 18 marzo 1876 l’opposizione di sinistra riusciva a mettere in minoranza il governo di destra a proposito del progetto legislativo inerente alla gestione delle linee ferroviarie. La Destra era favorevole alla gestione statale, mentre la Sinistra appoggiò a sorpresa la posizione a favore della conduzione privata da parte di un gruppo di moderati toscani. 

Depretis vinse le successive elezioni, formando un governo che associava in sé le varie correnti dell’opposizione, riunite sotto il nome generico di Sinistra storica. Con tale azione egli diede forma alla rivoluzione parlamentare, caratterizzata da continue lotte politiche tese alla costituzione di un assestamento di governo. Le varie maggioranze parlamentari che si alternarono nell’ultimo quarto del secolo si basarono spesso sul trasformismo, cioè su frequenti cambiamenti di casacche da parte di gruppi o di singoli parlamentari. Il fenomeno determinò la strutturazione partitica basata su raggruppamenti politici più o meno delineati. La destra più estrema comprendeva conservatori irriducibili che, essendo isolati, auspicavano un’avventura autoritaria. 

A sinistra si consolidava il Partito Radicale, che si richiamava all’ideologia di Carlo Cattaneo, propugnando riforme popolari, decentramento amministrativo, posizione internazionale antiaustriaca; era composto da democratici repubblicani. Al centro era collocato un ampio movimento liberal-democratico, che accettava di buon grado la monarchia costituzionale. 

L’aspra contesa tra la Destra conservatrice e la Sinistra storica interessò non solo la Camera dei Deputati, ma anche amministrazioni locali. 

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