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Nel Medioevo la grandezza delle Repubbliche Marinare di Amalfi, Genova, Pisa e Venezia

Ultimo aggiornamento lunedì, 1 Marzo, 2021   13:35

L’individuazione di Amalfi, Genova, Pisa e Venezia quali repubbliche italiane sul mare dev’essere attribuita allo storico francese de Sismondi (1807). Eppure i curatori di sussidiari e di manuali di storia in generale e di storia medievale in particolare utilizzati per decenni nei corsi di studio dalle primarie all’università, fatte le dovute eccezioni – vedi, per esempio, Giovanni Vitolo –, non hanno mai riservato lo spazio dovuto al capitolo delle repubbliche marinare d’Italia, uno dei più grandi fenomeni della lunga stagione del Medioevo. Sulla traccia segnata dallo storico francese definiamo il termine di repubblica marinara, provando l’appartenenza delle quattro città a tale istituto storico-giuridico, e poi ricostruiremo la loro politica durante i secoli di mezzo.

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I requisiti di una Repubblica marinara

Considerando quell’epoca, ritenuta ingiustamente di transizione dall’Antichità all’Età Moderna, presentiamo i requisiti richiesti affinchè un’entità statale di quei tempi possa essere considerata a tutti gli effetti repubblica marinara:

  1. relazioni mercantili con l’intero bacino del Mediterraneo;
  2. scambi artistici e culturali con conseguente creazione di nuove forme in chiave di sintesi;
  3. introduzione di particolari tecniche connesse alle attività produttive;
  4. politica e diplomazia a dimensione mediterranea;
  5. nuovi istituti politico-amministrativi;
  6. ideazione di codici giuridici a carattere marittimo-mercantile;
  7. conio di valuta aurea con significativo potere di acquisto;
  8. invenzione di nuova strumentazione e di tecniche per la navigazione;
  9. nuovi modelli socio-economici;
  10. difesa della cristianità.

    Repubbliche e Città Marinare
    Autore: Anel Anivac

Alle voci di questo decalogo rispondono pienamente proprio le quattro realtà marinare di Amalfi, Genova, Pisa e Venezia. Non rientrano in modo completo nello schema centri marittimi quali Napoli, Noli o Ragusa in Dalmazia (questi ultimi due nel passato hanno avanzato pretese in tal senso); si avvicinano, comunque in maniera segnatamente parziale, Salerno, Gaeta e qualche città pugliese come Bari o Trani.

Crediamo che sia opportuno fornire ulteriori chiarimenti in proposito. Soltanto Salerno fu completamente indipendente; Napoli e Gaeta dipendevano, seppur nominalmente, da Bisanzio, mentre Bari e Trani furono dapprima sotto il dominio bizantino e poi dei normanni; Ragusa dipese da Venezia, dall’Ungheria e indirettamente dagli Ottomani, mentre Noli dalla repubblica di Genova. Tutte svolsero una politica locale o tutt’al più regionale. Soltanto Salerno coniò un proprio tarì aureo nella seconda parte dell’XI secolo, mentre le altre usarono divise monetarie bizantine, longobarde, germaniche, veneziane e genovesi. Mediati dagli amalfitani furono i traffici mediterranei di salernitani e gaetani; in particolare, gli atranesi residenti a Salerno, dove vivevano secondo il diritto romano, svilupparono una marineria mercantile di significativo interesse, proiettata com’era verso l’Africa araba e Bisanzio. Trani produsse un proprio codice marittimo nel XIV secolo e organizzò traffici verso l’impero bizantino insieme a Bari.

Per quanto concerne le quattro autentiche repubbliche marinare d’Italia, bisogna distinguerle in due coppie: Amalfi e Venezia, città nuove nate al tracollo dell’impero romano d’Occidente, e Pisa e Genova, centri d’impronta classica che si svilupparono come comuni marinari nel trapasso tra alto e basso Medioevo.

  1. Le repubbliche delle città nuove: Amalfi e Venezia

Amalfi e Venezia si formarono nello stesso periodo e per le medesime motivazioni. Sorsero come castra bizantini, villaggi fortificati per difendere le postazioni rivierasche non ancora cadute in mano longobarda, nell’ultimo quarto del VI secolo.

Amalfi raccolse tra le sue mura gran parte degli autoctoni romanici che vivevano lungo la costa e sulle colline retrostanti in villaggi sparsi, nonché i profughi della guerra greco-gotica, che ebbe il suo epilogo proprio tra il Vesuvio e i Lattari. A questi si aggiunsero le guarnigioni bizantine tra il 568 e il 591. Almeno dal 596 Amalfi era diventata civitas, in quanto sede vescovile. Il territorio fu organizzato mediante le civitates di Amalfia e Atranum (Atrani), quest’ultima abitata dagli Atranenses o Atrianenses, un’etnìa dalle origini ancora misteriose, distinta dagli abitanti di Amalfi, delle terre, dei casali, dei castelli, che si definivano tutti Amalfitani. In quel tempo Amalfi dipendeva dal ducato romanico-bizantino di Napoli. Intanto Venezia, unica postazione marittima bizantina nell’alto Adriatico, godeva già di una maggiore autonomia.

I giochi relativi alla conquista della completa indipendenza da parte di Amalfi e di Venezia si svolsero nella prima parte del IX secolo. Essi furono strettamente legati ai progressi marinari e mercantili.

Regata delle quattro Repubbliche Marinare

Un episodio in particolare fu l’occasione propizia che determinò l’esordio marittimo-mercantile di Amalfi e di Venezia nel Mediterraneo meridionale. Nel 747 la flotta araba fu completamente distrutta da quella bizantina al largo di Cipro: in tal modo Bisanzio riconquistava l’isola insieme alla Siria. Gli arabi del Nord Africa perdevano le principali fonti di approvvigionamento del legname; non potevano chiedere soccorso agli islamici di Spagna, poiché in conflitto con loro per il dominio del Mediterraneo occidentale. A quel punto amalfitani e veneziani cominciarono a trasportare legna in Egitto dai boschi dei Monti Lattari e dell’entroterra veneto. Il califfo pagava quella merce indispensabile per la sua società mediante l’oro estratto dalle miniere del Sudan. I veneziani vendevano agli egiziani addirittura armi di ferro e schiavi catturati lungo le coste dalmate. Il vocabolo sclavus derivava, infatti, da Slavus (slavo), relativo alle popolazioni dalmate e balcaniche, per cui la fascia costiera che delimitava a est l’Adriatico fu detta Schiavonia.

I veneziani giustificavano il commercio di schiavi e servi in base al principio secondo il quale la schiavitù dei corpi, intesa per pagani e infedeli, poteva condurre alla salvezza delle anime. D’altra parte gli amalfitani agli inizi del X secolo liberavano gli schiavi cristiani nelle mani dei musulmani mediante riscatti, finanziati dal patriarca di Costantinopoli. Intanto schiavi e servi sassoni venivano condotti dai longobardi in Italia meridionale.

Da Alessandria i veneziani trasferirono nella Laguna le spoglie dell’Evangelista Marco, destinato a diventare il protettore di Venezia.

LA NASCITA DELLA REPUBBLICA DI AMALFI

All’inizio della loro storia Amalfi e Venezia furono amministrate da tribuni bizantini. Poi, nell’VIII secolo, l’organizzazione veneziana, grazie all’unicità di presenza nell’Adriatico, acquistava maggiore autonomia e si faceva amministrare, alla stregua di Napoli, da un proprio dux. Contemporaneamente Amalfi, dipendente da Napoli, era governata da un comes locale, nominato dal dux napoletano.

Amalfi Medievale

Partita dai nuclei di Malamocco e di Torcello, Venezia trovò la sua espansione sulle isole intorno a Rialto dopo l’814, cioè la preesistente Civitas Rivoalti, e assunse il toponimo plurale tantum Venetiae. Così nel IX secolo nasceva definitivamente la Civitas Venetiarum.

L’affermazione dell’indipendenza dal ducato di Napoli e la nascita della repubblica marinara di Amalfi sono intimamente concatenate a un episodio accaduto alla fine degli anni ’30 del IX secolo. Sin dall’835 il principe longobardo di Benevento, Sicardo, ambiva a costituire un forte Stato unitario in Campania, per cui assediava Napoli. Dopo estenuanti assalti, le sue truppe decisero di togliere le tende, soprattutto alla vista di enormi cumuli di grano che i napoletani avevano ammassato sul litorale; se fossero stati più perspicaci, avrebbero scoperto che si trattava di uno strato di cereali distribuito su montagne di sabbia. L’anno seguente tornarono all’assalto, ma questa volta furono respinti dai saraceni alleati dei napoletani. Allora Sicardo decise di siglare un patto di pace con il duca Andrea, il cui capitolo IV, del quale purtroppo resta solo il titolo (De Amalfi(ta)nis qualiter peragantur), lascia intendere l’importanza raggiunta dagli amalfitani nel commercio marittimo. Il principe cercò di raggiungere l’obiettivo per vie traverse, cioè aggirando l’ostacolo. Interessato alle capacità marittime degli amalfitani, iniziò una politica di intrecci matrimoniali tra questi e i salernitani, allo scopo di trasformare Salerno, la sua capitale sul mare, in un porto aperto al Mediterraneo. A tal fine prometteva doni e ricchezze agli amalfitani che si sarebbero trasferiti a Salerno, tra cui ampie proprietà terriere nell’area di Nocera, lungo la costa di Vietri e nel Cilento-Lucania. Una parte di questi, soprattutto atranesi, accettò la proposta e nel gennaio dell’838 favorì addirittura il saccheggio notturno di Amalfi. In quella circostanza le truppe longobarde s’impossessarono delle spoglie della vergine e martire Trofimena, protettrice dell’etnìa amalfitana, che il vescovo Pietro aveva pensato bene a trasferire da Minori nella cattedrale della fortificata Amalfi. La politica di Sicardo si fondava anche sul dominio psicologico delle popolazioni assoggettate, consistente nella privazione dei loro santi protettori. Era, in aggiunta, un incettatore di reliquie: infatti pochi mesi prima aveva incaricato proprio agli amalfitani il trasporto del corpo di S. Bartolomeo Apostolo dalle isole Lipari a Benevento, con l’intenzione di elevare la Chiesa beneventana alla dignità apostolica. All’appello degli atranesi trasferitisi a Salerno, rivolto agli amalfitani rimasti in patria, questi ultimi rispondevano con la fierezza e la consapevolezza di costituire ormai una nazione: << Dona multa et ampla principis vestri vobis sint; nobis autem sufficit haec montuosa terra >>. Essi, approfittando delle lotte intestine che imperversavano a Benevento e della conseguente uccisione di Sicardo, nel luglio dell’839 saccheggiarono Salerno e riportarono in patria alcuni dei conterranei che erano stati a viva forza ivi deportati dal defunto principe. Molti atranesi stabilirono, comunque, di rimanere; essi furono costretti a spostarsi nella vicina Vietri, dalla quale rientrarono nell’ultimo quarto del IX secolo per sfuggire alle incursioni saraceniche.

1 SETTEMBRE DELL’839

Una mappa di Napoli nell’epoca romana

Il I settembre dell’839, inizio dell’anno secondo l’uso bizantino, gli amalfitani proclamavano la respublica indipendente, staccandosi da Napoli, ed eleggevano quale loro capo Pietro, figlio di Mauro vicario di Antiochia (cioè esponente della colonia amalfitana della città siriana), al quale attribuirono il titolo di comes. Secondo la
tradizione dell’amministrazione pubblica della
respublica Romanorum, ogni anno si procedeva all’elezione di un
comes e nella nuova consuetudine bizantina ciò avveniva ogni I settembre. In effetti gli amalfitani si proclamavano discendenti dei romani (descendit ex Patribus Romanorum), sottolineandolo nella loro saga d’origine, riportata sia nel Chronicon Salernitanum (X secolo) che nel Chronicon Amalfitanum (copia del XIII secolo). All’elezione partecipavano gli Amalfitani di Amalfi e gli Atranenses; così l’aristocrazia della respublica risiedeva nelle due uniche civitates del territorio. Questa classe sociale dal rango primitivo di milizia castrense si era evoluta in un ceto mercantile e marinaro avviato ormai sulla linea del progresso economico. L’evoluzione socio-economica aumentava il prestigio delle stirpi aristocratiche amalfitane, acuendo lotte intestine per la gestione del potere. Ancora una volta i retaggi del diritto amministrativo romano giungevano in soccorso: si pensò alla soluzione della diarchia, cioè due comites per anno, in modo da placare l’irruenza delle fazioni. Così si alternavano frequentemente i figli di comites che avevano governato Amalfi e il suo territorio al tempo della precedente dipendenza napoletana.

Intanto a Venezia i duces restavano in carica a vita e dopo il decesso di certo non veniva eletto un parente; così anche l’aristocrazia mercantile veneziana aveva trovato una soluzione di stabile equilibrio al vertice.

IL CHRONICON SALERNITANUM E IL CHRONICON AMALFITANUM

Chronicon Salernitanum

Due fonti cronachistiche, il Chronicon Salernitanum e il Chronicon Amalfitanum, riportano cronologie dei capi della repubblica di Amalfi: il primo si ferma al prefecturius Pulcari (882), il secondo si protrae fino all’avvento di Roberto il Guiscardo (1073). Il confronto e la collazione delle due cronache, corroborate da una puntuale ed esaustiva analisi delle fonti documentarie superstiti, hanno permesso la redazione piuttosto precisa della cronologia dei massimi magistrati amalfitani.

Gli esempi di dinastie al potere nei vicini potentati campani, sia principati longobardi che Napoli romanico-bizantina, influirono sul sistema politico-amministrativo della respublica aristocratica amalfitana.

Nell’846 l’eletto Marino, nipote di Pulcari, comes del periodo napoletano, assumeva una magistratura di grado superiore: si proclamò prefectus o prefecturius, rimanendo, comunque, in carica per un solo anno. Il suo successore Giovanni si confermava prefecturius e si associava un comes. Ma l’anno seguente gli aristocratici imposero il ritorno alle diarchie comitali annuali, avendo fiutato il tentativo di trasformazione dinastica. Nell’856 il predetto Marino tornava al governo insieme al figlio Sergio; entrambi si definivano prefecturii. Marino inaugurò una politica matrimoniale estera, alla stregua dei dinasti campani, dando in moglie una propria figlia al conte longobardo di Capua.

Roberto il Guiscardo

Quando questi decise di liberarsi dalla signoria salernitana, scoppiò un inevitabile conflitto regionale. Il principe di Salerno, insieme a napoletani e spoletini, pose l’assedio a Capua; Marino intervenne a sostegno del consuocero e del genero. Approfittando del fatto che Marino e il figlio erano stati catturati e condotti prigionieri a Napoli, ad Amalfi prendevano il potere Mauro, figlio di Mauro, e Sergio, figlio di Pietro primo comes della repubblica, che si nominarono entrambi prefecturii. Così passarono dalla parte degli assedianti, i quali, nonostante fossero militarmente superiori, furono sorprendentemente sconfitti. Dopo cinque anni di governo, Mauro mandò in esilio a Salerno il suo collega Sergio. Intanto creava un sistema di governo assolutamente inedito nel suo genere: mentre egli restava al vertice del potere a vita, acconsentiva all’aristocrazia di eleggere diarchie e triarchie annuali, che avevano il compito di collaborare con lui. La presenza tra questi del figlio del duca di Napoli, insieme alla detenzione in quella città dei prefecturii Marino e Sergio, prova la relazione di alleanza politica tra Mauro e il ducato partenopeo, nonché l’esistenza ad Amalfi di una fazione filo-napoletana. Così il magister militum di Napoli non aveva perso la speranza di riportare Amalfi sotto la sua influenza. D’altro canto era attiva pure una fazione nazionalista derivata dal gruppo che aveva istituito la repubblica indipendente. Mauro cercò di portare dalla sua parte questo gruppo, ideando appunto il sistema dei comites annuali collaboratori. Ma i nazionalisti attentarono con successo alla sua vita, senza riuscire a prendere subito il potere: nell’868 si alternarono ben quattro prefecturii. Poi tornò da Capua Marino con l’altro figlio Pulcari. Nell’870 con la sua flotta di venti sagene sbaragliò quella napoletano-saracena, liberando il vescovo di Napoli Atanasio prigioniero del duca suo nipote; tale impresa gli procurò il possesso dell’isola di Capri, donata alla repubblica amalfitana dall’imperatore germanico Ludovico, disceso allora nel Meridione per scacciare i saraceni.

3. Le relazioni con gli arabi

In quegli anni il dux di Venezia giunse con la sua flotta a sostegno dell’imperatore per la liberazione di Taranto dai musulmani e nella lotta contro i corsari slavi. Ciò accadeva in virtù del pactum stipulato tra Venezia e l’impero carolingio nell’840 e realizzato senza la richiesta di approvazione a Bisanzio: il fatto rappresenta la prima reale attestazione dell’indipendenza del ducato veneziano.

Ad Amalfi il prefecturius Pulcari rovesciò la politica paterna, collaborando, per necessità mercantili, con i saraceni. Per aver ingannato papa Giovanni VIII, incassando 10000 mancosi d’argento senza però proteggere il litorale tra Traetto e il Garigliano, ricevette l’anatema perpetuo insieme al vescovo e all’intero popolo amalfitano.

E pensare che trent’anni prima le navi di Amalfi, insieme a quelle di Napoli, di Gaeta e di Sorrento, avevano sbaragliato più volte le squadre navali saracene dirette alla conquista di Roma! Destinata a rimanere impressa nella memoria dell’immaginario collettivo fu la battaglia di Ostia dell’849, celebrata da Raffaello Sanzio nelle Stanze Vaticane su committenza di papa Leone X, già arcivescovo di Amalfi.

Raffaello, la Battaglia di Ostia (Musei Vaticani)

Il mercante amalfitano Fluro, di ritorno da Kairouan (Tunisia), avvertì per tempo il principe di Salerno dell’imminente attacco arabo contro la sua città. Così la politica filo-araba di Amalfi si basava su relazioni mercantili, ma si trasformava in scontro aperto di fronte al pericolo di occupazione di centri cristiani nevralgici e importanti. Comunque gli amalfitani in particolari circostanze furono costretti a mettere in atto una delicata mediazione. Ciò avvenne nel 991, quando una potente flotta kelbita, composta forse da quaranta unità, si presentò nel mare amalfitano. Allora il duca Mansone I rinforzò le difese della città e invitò i saraceni ad approdare a Minori e a Maiori, fornendo loro vettovaglie. Purtroppo i musulmani violarono i luoghi di culto. Allora il magnificentissimus dux comunicò loro: << Nolite perturbare vos, quia vestrum timuit populus, propterea comprehendit arma>>. Ripartirono e tentarono di sbarcare a Positano, ma furono respinti a sassate dagli abitanti del villaggio di Laurito. Sorprese da una violenta tempesta al largo di Capri, le loro navi furono disperse. Queste incursioni saraceniche erano diventate sempre più frequenti e si erano spinte lungo tutte le coste tirreniche; questa era la conseguenza del commercio di legna di amalfitani e veneziani, che aveva favorito la ripresa navale araba nell’Africa settentrionale sin dall’820. Spesso gli incursori chiedevano un tributo alle popolazioni italiche rivierasche in cambio della loro incolumità.

Un libro sui Saraceni in Italia

Neppure Amalfi era immune da tale pratica: infatti il dux Sergio III nel 1009 menziona il tributo versato ai “maledetti saraceni” e, inoltre, ricorda l’increscioso episodio del rapimento accaduto sette anni prima subìto da suo nonno Mansone I, da suo padre Giovanni I e da lui stesso; per la loro liberazione fu pagato un forte riscatto, in quanto, afferma Sergio III, << exivimus nudi et vacui >>. Così il dux dovette vendere un produttivo mulino pubblico per impegnare il ricavato nel potenziamento delle difese del ducato.

GLI ATTACCHI MUSULMANI

Gli attacchi musulmani contro le coste del Tirreno non provenivano solo da sud, ma anche da ovest, soprattutto dopo la conquista di Corsica e Sardegna da parte degli arabi di Spagna. Una notte del 1004, approfittando dell’assenza della flotta, alcune navi del califfato di Cordova risalirono l’Arno, pronte a saccheggiare Pisa. La tradizione narra che una popolana, Kinzica de’ Sismondi, accortasi dell’invasione, avesse dato in tempo l’allarme, per cui gli armati pisani, accorsi numerosi, avrebbero ricacciato in mare gli islamici. Pisani e genovesi, ancora dipendenti dall’impero germanico, passavano al contrattacco navale nel 1015-1016, cacciando i musulmani dalla Sardegna. Quindi fecero ancora di più: nel 1034 i pisani attaccavano la città africana di Bona e nel 1063 saccheggiavano il porto di Palermo, capitale dell’emirato kelbita di Sicilia, in appoggio alla conquista normanna dell’isola; mentre i genovesi liberavano la Corsica. Tra il 1113 e il 1115 ancora una volta i pisani conquistavano le Baleari.

La pirateria nel Medioevo in una raffigurazione

Nel 1087 fu organizzata la “prova generale della I Crociata”, cioè l’annientamento del pericoloso covo piratico di al-Madhia, sulle coste tunisine, dal quale il Timino partiva con le sue navi per saccheggiare i convogli mercantili diretti verso oriente. Alle spedizioni presero parte pisani, genovesi e navi amalfitane del disypathos dell’impero di Bisanzio Pantaleone de Comite Maurone, senza il cui prezioso aiuto l’impresa non sarebbe riuscita, come ricorda il Carmen in Victoriam Pisanorum scritto per l’occasione: << Et refulsit inter istos cum parte exercitus/ Pantaleo Malfitanus, inter Graecos hypatus,/ cuius fortis et astuti potenti astutia/ est confusa maledicti Timini versutia >>.

I BUONI RAPPORTI CON GLI ARABI D’EGITTO

Gli amalfitani furono sempre in buoni rapporti con gli arabi d’Egitto; quindi le minacce alla loro costa dovevano provenire dai litorali libici e tunisini, la così detta Ifr?qiyyah, dove governavano gli Ziridi, e dalla Sicilia, dove risiedevano i Kelbiti. Nel 969 il dux di Amalfi Mansone I appoggiò con la flotta il colpo di mano dei Fatimidi, che tolsero l’Egitto agli Aghlabiti. L’intervento amalfitano offrì enormi vantaggi alla repubblica: i mercanti di Amalfi ottennero un trattamento doganale preferenziale, poterono fondare proprie “colonie virtuali” ad Alessandria e al Cairo, mentre al ducato marinaro fu concessa l’autorizzazione a coniare una variante del rubâ’î, il tarì d’oro del valore di 10 carati. In particolare, la colonia amalfitana di Alessandria esisteva ancora nel 1143. La stima concessa agli amalfitani ivi residenti dal califfo fatimida era considerevole. Quando nel 996 la flotta militare allestita nel porto del Cairo con lo scopo di attaccare Costantinopoli fu interamente bruciata la notte prima della partenza, la colpa fu attribuita dalla popolazione araba ai rum, i cristiani del posto; così la folla islamica inferocita ne massacrò molti. Il califfo intervenne nella questione, ordinando la restituzione dei beni sequestrati ai soli amalfitani.

Bisanzio, l’antica Istanbul in una miniatura

In quegli stessi anni la politica militare di Mansone I si rivolgeva anche verso Bisanzio. Così tra il 968 e il 969, come conferma pure Liutprando da Cremona, contingenti amalfitani parteciparono alla riconquista bizantina della Siria. Il risultato fu di grande valore e di notevole prestigio per il dux di Amalfi, che allo scorrere del secolo poteva fregiarsi degli elevati titoli aulici imperiali di imperialis patricius, antypathos et vestis: egli era, pertanto, il referente principale dell’imperatore in Occidente.

Le incursioni saraceniche contro l’Italia meridionale ebbero fine a seguito del trattato di pace stipulato nel 1028 tra Bisanzio e l’Egitto.

4. La monarchia ducale.

Esauritasi la dinastia di Marino, poiché priva di eredi, si susseguirono alcuni prefecturii a vita, che tentarono anch’essi di continuare l’esperienza dinastica. L’esito di una battaglia navale combattuta tra amalfitani e sorrentini determinò la cacciata del prefecturius Marino II della dinastia dei Neapolitani e l’avvento al potere di Mansone Fusile. Costui gettò le basi per l’affermazione di una dinastia che governò Amalfi per sessant’anni (897-957), trasmettendo il potere da padre in figlio mediante la pratica dell’associazione o correggenza. Mansone Fusile, oltre ad essere prefecturius, si fregiò pure del titolo aulico di spatarius candidatus (candidato a portare la spada dell’imperatore nelle cerimonie), poiché aveva preso l’iniziativa del riscatto dei cristiani schiavi dei musulmani. Prima di ritirarsi definitivamente in monastero nel 913, si associò il figlio Mastalo I, che resse le sorti di Amalfi per oltre cinquant’anni (900-953).

L’Amalfi medievale in una raffigurazione

Costui ricevette l’alto grado di patritius imperialis da Bisanzio e si intitolò iudex gloriosissimus, carica già ricoperta in precedenza dal prefecturius Sergio VI (884). Governò dapprima col suo primogenito Leone (920-922), che fu imperialis protospatarius, poi con l’altro figlio Giovanni (934-949), che fu imperialis patritius e in ultimo col figlio di costui Mastalo II (949-953). Mastalo I improntò la sua politica regionale sull’intervento militare a sostegno del più debole, onde evitare che il più forte, vincendo, potesse minacciare l’autonomia stessa di Amalfi. Pertanto, nel 946 intervenne a favore del giovane principe di Salerno Gisulfo I, contribuendo alla vittoria di Mitigliano presso Cava contro napoletani, capuani e beneventani. Egli gettò le basi per la nomina a dux del nipote Mastalo II da parte dell’aristocrazia comitale amalfitano-atranese, cioè delle stirpi derivate da un comes annuale della repubblica. Il caso non era unico, perchè fu preceduto dall’attribuzione dei titoli di consul et dux a Docibile II di Gaeta da parte del genitore Giovanni ypathos et imperialis patritius. Il fenomeno dimostra una completa indipendenza delle due realtà marinare romanico-bizantine da Bisanzio, poiché procedevano senza richiedere l’autorizzazione al basileus.

Mastalo II, essendo ancora minorenne, governò per qualche anno insieme alla madre Androsa, che dovette ricevere il titolo di ducissa; divenuto diciottenne entro il 20 gennaio del 957, tenne il potere da solo. Purtroppo nel luglio dello stesso anno cadde vittima di una congiura, com’era già accaduto a suo padre Giovanni otto anni prima. I due episodi provano che un’altra stirpe stava tentando di salire alla ribalta; infatti Sergio, figlio di Giovanni Comite di Sergio di Musco Comite, mandante dell’omicidio di Mastalo II, assunse il potere sine aliquo scandalo. Egli diede luogo a una vera e propria signoria, stabilendo intrecci matrimoniali con i casati principesco di Benevento e ducale di Napoli. Si associò sin dal principio il figlio Mansone I che per le sue imprese e iniziative dev’essere a giusta ragione considerato il più grande dux della storia di Amalfi. Primo interlocutore dei bizantini in Occidente, come s’è già dimostrato, intervenne nella politica campana in modo decisamente attivo. Nel 973 appoggiò il suocero Landolfo nell’affermazione a principe di Salerno e otto anni dopo ne divenne addirittura il dominatore, riuscendo a tenere il principato per un biennio e a scendere a patti con l’imperatore Ottone II. Ma l’aristocrazia comitale non approvò la politica espansionistica del dux, per cui lo depose e lo sostituì col fratello Adelferio; comunque dopo circa nove mesi decise di riconsegliargli il seggio ducale a patto che abbandonasse i suoi disegni di conquiste territoriali e di belligeranza continua. Ciò prova che l’aristocrazia d’impronta mercantile preferiva l’azione diplomatica alle guerre, poiché queste danneggiavano i suoi commerci. Allora Mansone I, le cui doti politiche e amministrative erano riconosciute dalla classe dei nobiliores, s’impegnò nella realizzazione di notevoli iniziative ecclesiastiche, quali l’elevazione della Chiesa di Amalfi al rango arcivescovile e metropolitico e la fondazione di vari luoghi di culto, nonché l’inizio di una politica monastica benedettina, che in due decenni vide la realizzazione di una costellazione di cenobi nell’ambito del territorio del ducato.

Una stampa antica di Amalfi

Procurò al nipote e correggente Sergio III l’unione matrimoniale con Maria, figlia del principe di Capua e Benevento Pandolfo II, e alla figlia Sichelcarda con il principe beneventano Landolfo V, realizzando, in tal modo, una forte alleanza con un consistente potentato longobardo. Così assicurò alla sua stirpe una lunga permanenza al vertice del ducato amalfitano, mediante il sistema della correggenza, un sistema che a giusta ragione Ulrich Schwarz ha definito monarchia ducale.

AMALFI NEL 977 PIU’ IMPORTANTE DI NAPOLI

L’aspetto di Amalfi degli anni intorno al 977 colpiva l’ammirazione del geografo di Bagdad Ibn Havqal, il quale così l’ha descritta: “la più prospera città di Longobardìa, la più nobile per le sue origini, la più illustre per le sue condizioni, la più ricca e opulenta. Il territorio di Amalfi confina con quello di Napoli, che è città bella, ma meno importante di Amalfi”.

S.SALVATORE DE BIRECTO, ATRANI

Il dux veniva incoronato nella cappella palatina del S. Salvatore de Birecto di Atrani dall’arcivescovo, che lo ungeva come gratia Dei dux; questi in seguito, nell’associarsi un proprio figlio, lo nominava Dei providentia dux, cioè dux per provvidenza divina tramite l’intercessione del genitore. Costui, alla morte del padre, veniva incoronato gratia Dei dux e a sua volta nominava il figlio Dei providentia dux e la serie continuava dal 957 al 1068. In qualche circostanza si verificò un triumvirato di duces, con il padre gratia Dei dux, il figlio e il nipote Dei providentia duces. Nella maggior parte dei casi i correggenti venivano associati quando erano ancora sine etate, cioè minorenni, o infra etate, cioè tra i 14 e i 18 anni di età.

Atrani, S.Salvatore de Birecto dove veniva incoronato il dux
  1. Pisa e Genova: i comuni marinari.

Pisa e Genova erano due centri di fondazione classica: la prima etrusca e la seconda ligure; entrambe furono poi romanizzate. Genova aveva un buon porto, sul quale nell’Alto Medioevo sorse un castrum bizantino, che passò in breve tempo sotto la giurisdizione dell’impero germanico. Fu sempre in relazione con Milano, già capitale dell’impero romano d’Occidente nel IV secolo; infatti il suo toponimo, Ianua, aveva il significato di “porta” che apriva la via attraverso le Alpi liguri per la città di Milano. Pisa medievale era, invece, il risultato della fusione di quattro nuclei, per cui il suo toponimo, Pisae, era un plurale tantum.

Furono inizialmente governate da vicecomites (visconti) per conto dell’imperatore. I loro cantieri sfornarono numerose navi da guerra che, sotto l’aquila imperiale, spazzarono via gli arabi dal Tirreno. Diventando sempre più potenti e approfittando della debolezza e della pressione allentata dell’impero, conquistarono gradualmente la totale indipendenza. Ad ogni modo Pisa rimase per sempre fedele all’aquila germanica. Già nel 1070, anche se ancora amministrata da un vicecomes, Pisa, le cui navi mercantili si spingevano ormai verso la Sicilia normanna, era di fatto autonoma. Una seconda attestazione di accresciuta autonomia la fornisce un diploma del 1081, in virtù del quale l’imperatore Enrico IV, volendo creare un partito filo-imperiale all’interno della città, riconosceva i consules, il loro “lodo” (arbitrato) per la nomina del marchese di Toscana o del vicario imperiale, una certa libertà di azione dei cittadini e rinunziava all’esazione di imposte, eccezion fatta per il fodro (prelievo di foraggio o biada per animali) stabilito in passato dal marchese Ugo. Una terza e definitiva attestazione circa la costituzione di nome e di fatto di un comune marinaro a Pisa, retto dal Commune colloquium civitatis o Parlamentum composto dai cives pisani, viene fornita da un documento redatto tra il 1080 e il 1085, nel quale si sottoscrivono il vescovo Geraldo, il vicecomes Ugo e i consules. In esso si trattano le esenzioni fiscali, l’amministrazione della giustizia e la protezione dei traffici marittimi pisani in Sardegna.

L’occasione propizia per l’affermazione dell’indipendenza si verificò con la partecipazione alla I Crociata. Pisa lo fece in grande stile, inviando 120 galee al comando del suo arcivescovo; Genova intervenne con una flotta dieci volte inferiore.

Genova fondò la repubblica marinara nel 1096 mediante la Compagna, un’associazione di mercanti e capitalisti; la sua immediata evoluzione fu il Comunis Ianuensis tre anni dopo, retto da consules (consoli), che erano l’espressione delle principali stirpi capitaliste. Anche il Comunis Pisarum nasceva bel contempo dall’organizzazione privata di armatori e mercanti; esso fu riconosciuto legalmente nel 1132 dall’imperatore tedesco Lotario.

Le cause delle Crociate

Così, in definitiva, Pisa e Genova, formatesi insieme come nuove realtà marittime, furono due comuni marinari, che nel Basso Medioevo parteciparono alle aspre contese tra papato e impero, tra guelfi e ghibellini, destinate a confrontarsi fra di loro, immemori dell’antica alleanza e amicizia.

(LEGGI ANCHE: L’AMMINISTRAZIONE E LE LEGGI DELLE REPUBBLICHE MARINARE….)

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