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La storia della politica: da Machiavelli al Re Sole, tra scienza e utopia

Ultimo aggiornamento mercoledì, 29 Maggio, 2019   20:45

Lo storico medievalista Giuseppe Gargano ripercorre le fasi più importanti della “storia della politica”. Alla cara memoria del maestro Giuseppe Galasso, insigne storico del Mezzogiorno e qualificato politico della Repubblica Italiana.


Se la Storia è una scienza, e oggi lo è più che mai, allora essa, che è in grado di farci rivivere molte azioni del passato, può diventare lo strumento efficace per costruire un’altra scienza, la Politica.

Tra scienza politica e utopia.

Il tempo, che scorre irresistibilmente e con un movimento ininterrotto, risucchia e trasporta con sé tutto ciò che è in procinto di divenire per inghiottirlo in un abisso d’oblio, così come gli avvenimenti indegni di attrarre l’attenzione che quelli i quali sono grandi e degni di memoria, e, come dice il tragico (Sofocle), esso fa nascere ciò che è caduto e ciò che è apparso lo rivela. Ma la scienza della Storia è una diga impermeabile che si oppone al torrente del tempo: essa ne arresta in qualche modo il corso irresistibile; gli avvenimenti che si susseguono, tutti quelli che essa ha potuto raccogliere in superficie, essa li contiene nel suo abbraccio e non li lascia giammai scivolare nelle profondità dell’oblio”

Questo collegamento tra il Tempo e la Storia di Anna Comneno (Alexiade, proemio, figlia dell’imperatore di Bisanzio Alessio I (1081-1118), fa assumere alla Storia il ruolo di una scienza capace di fermare il corso tumultuoso del Tempo e di raccogliere tutti gli eventi che corrono in superficie per non farli sparire nel buio dell’oblio. Se la Storia è una scienza, e oggi lo è più che mai, allora essa, che è in grado di farci rivivere molte azioni del passato, può diventare lo strumento efficace per costruire un’altra scienza, la Politica. Ed è proprio ciò che ha fatto Niccolò Machiavelli nel Rinascimento

Niccolò Machiavelli ha fondato la Politica come scienza 

Egli ha fondato la Politica come scienza, strutturandola sulla ricerca storica e sulla costruzione di modelli di governo adatti alla sua epoca. Le sue due principali opere, Il Principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, sembrano porsi in contraddittorio tra di loro, proponendo la prima la creazione di un principato italiano sull’esempio del regno di Francia e sostenendo la seconda una repubblica sull’esempio di quella classica romana, illustrata dal predetto storico dell’età augustea, che Ottaviano soleva amorevolmente definire il mio repubblicano

Nicolò Machiavelli

La respublica di Roma è considerata da Machiavelli, che ricalca la lezione di Cicerone, la migliore possibile, perché fonde insieme le positive forme della monarchia (i consoli elettivi annualmente), dell’aristocrazia (il senato), della democrazia (il tribunato della plebe e i comizi centuriati). 

Egli considera il papato l’ostacolo principale all’unità d’Italia sotto forma di principato: da sempre i papi hanno fatto appello alle potenze straniere, affinchè ciò non avvenisse. Così si comportarono con i longobardi, che avevano costituito un regno nazionale formato da ducati, chiedendo l’intervento dei franchi. Così si regolarono con Federico II e gli svevi, chiamando nel regno di Sicilia Carlo I d’Angiò

Qual era la vera idea politica di Machiavelli

O meglio, quale soluzione politica proponeva per l’Italia? Per rispondere a tale domanda, bisogna giocoforza fare alcune riflessioni sulla politica della sua Firenze.

A partire dal XIII secolo all’interno della città si verificavano aspre lotte tra il popolo e i magnati per il governo del Comune. Alfine vinse la classe mediana popolare, la quale, dopo un certo tempo, si distinse nel popolo minuto o mercatanti e nei grandi e ricchi; questi ultimi erano i nuovi nobili, di antica reputazione, definiti uomini savi per la loro esperienza. Ai tempi più antichi risalivano il Consiglio del Comune e il Consiglio del Popolo; quest’ultimo fu aggiunto al primo per inserire il nuovo ceto sociale.  Tale fu l’evoluzione politica dopo Dante.

La riforma costituzionale della repubblica fiorentina nel 1494 vide l’accesso al potere delle classi mediane, che lo condivisero con l’aristocrazia degli uomini savi. Questi costituivano le case, intese come casate rappresentate dai grandi palazzi turriti. 

AI TEMPI DEI MEDICI 
I Medici nella serie tv realizzata dalla Rai

Al tempo dei Medici avevano costituito il dominio oligarchico, esercitato per mezzo del Consiglio dei Settanta e del Consiglio dei Cento. Come afferma Felix Gilbert (Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Torino 1970), essi formavano l’élite culturale della città, propugnatori della rinascita della civiltà classica e protettori degli umanisti. A loro erano affidate le missioni diplomatiche. Molti di loro, potenti sotto i Medici, continuarono a recitare una parte rilevante nel periodo repubblicano. La loro casta era molto ricca: la loro ricchezza derivava dai commerci marittimi, per i quali utilizzavano il porto di Pisa. Il ruolo di Firenze quale potenza a dimensione europea derivava principalmente da banchieri, mercanti, lanaioli. Invece la classe media, costituita da bottegai, piccoli imprenditori, artigiani, recitava di certo un ruolo più dimesso. Una terza classe, la più bassa, era la plebe o vulgo, formata da lavoratori e da servi.

La repubblica del 1494, su suggerimento del Savonarola, fuse insieme il Consiglio del Comune e il Consiglio del Popolo, per istituire il Consiglio Maggiore, a imitazione del Maggior Consiglio di Venezia, per ottenere armonia interna e forza esterna; infatti allora i fiorentini stimavano che la repubblica marciana avesse realizzato la costituzione perfetta. Il Consiglio Maggiore fiorentino nel 1500 aveva ben tremila componenti. Il simbolo della repubblica fiorentina divenne la sala del Consiglio Maggiore, immediatamente demolita nel 1512 dai Medici al loro ritorno in città. In tale consiglio si affrontavano i due gruppi politici degli aristocratici e dei mediani; il loro conflitto continuo fu causa di discordie deleterie. Il Consiglio Maggiore approvava le leggi e imponeva le tasse. Inoltre sceglieva i componenti degli organi esecutivi, che rispecchiavano corporazioni (arti maggiori e arti minori) e organizzazioni sociali. 

Il massimo organo esecutivo, alla stregua di Venezia, era la Signoria, composto da otto priori di libertà e dal gonfaloniere di giustizia: ciascun quartiere eleggeva due priori, mentre sette membri della Signoria appartenevano alle arti maggiori e due alle arti minori. La Signoria era presieduta dal gonfaloniere, alto magistrato che rappresentava la repubblica. Due istituzioni del XIII secolo, i dodici buonuomini e i sedici gonfalonieri di compagnia, allora detentori del potere esecutivo, ora svolgevano un compito consultivo. La procedura istituzionale assegnava alla Signoria le proposte legislative, ai dodici buonuomini e ai sedici gonfalonieri il parere, al Consiglio Maggiore l’approvazione. Nel 1502 la carica di gonfaloniere di giustizia, a emulazione del doge di Venezia, divenne a vita. 

PIER SODERINI GONFALONIERE A VITA 

Il gonfaloniere per antonomasia divenne Pier Soderini, eletto dal Consiglio Maggiore proprio nel 1502. Egli non era affatto un riformatore, ma si poneva super partes a riguardo delle classi in contrasto. Allora gli aristocratici lo considerarono un traditore, perché nonostante fosse uno di loro, non volle portare avanti il loro programma. Perseguì una politica filo-francese, che espose Firenze alle truppe spagnole e pontificie nel 1512. Scelse quale suo valido collaboratore Niccolò Machiavelli, che nominò segretario della repubblica, inviandolo in importanti missioni diplomatiche.

Piero Soderini (1450-1522)

Pier Soderini aveva assunto una rilevanza politica paragonabile soltanto a quella di Lorenzo il Magnifico, sebbene questa fosse di maggior spessore. Lorenzo, infatti, era ritenuto l’arbitro d’Italia, cioè colui che aveva stabilito la pace nella penisola e aveva annullato la minaccia delle invasioni straniere; inoltre, come un primus inter pares, alla stregua di Augusto, aveva mantenuto l’equilibrio politico a Firenze, senza sopprimere le istituzioni repubblicane e facendo partecipare gli aristocratici al governo. Il suo omonimo nipote, rientrato in città nel 1512 con l’appoggio degli spagnoli e dello zio papa, si mostrava al popolo sempre scortato, trattava gli affari di Stato nel suo palazzo, arrogava a sé le funzioni dei magistrati, prendeva decisioni politiche servendosi dei pareri di pochi amici fidati. Così egli appariva agli occhi di molti come un tiranno dispotico. Ma il suo comportamento non rientrava affatto nella definizione che Savonarola diede della tirannide: “ Il tiranno è un uomo che precipita il suo paese in guerra per mantenersi al potere, che distrae le masse con le feste e gli spettacoli, che si innalza palazzi con i denari della città, che corrompe i giovani e ha spie fra i magistrati”

La repubblica fiorentina provvide a introdurre altri organi governativi: il Consiglio dei Dieci, che si interessava della politica estera e della guerra, il Consiglio degli Otto di guardia, che amministrava la giustizia, gli ufficiali di monte, che gestivano le finanze. Il governo delle città toscane soggette a Firenze, quali Pisa, Pistoia, Arezzo, Volterra, Cortona, Livorno, era affidato a podestà e a capitani. Questi restavano in carica per un solo anno, come i capitanei generales dei periodi angioino e aragonese nelle città e in alcuni territori del regno di Sicilia. 

I membri della Signoria si alternavano addirittura ogni due mesi, al fine di impedire che essi costituissero centri di potere. Per gli uffici meno importanti venivano assegnati stipendi, favorendo, così, il loro accaparramento, confermato, per i tempi più antichi, dall’espressione dantesca i’ mi sobbarco. C’erano altre salvaguardie per evitare accentramenti di potere. Chi aveva occupato una carica era ineleggibile per altro ufficio per un certo tempo e i membri di una stessa famiglia non potevano avere contemporaneamente incarichi. 

I Medici idearono un sistema per sostenere il loro regime. Fecero realizzare elenchi di eleggibili ai consigli e agli uffici, facendo poi scrivere i loro nomi su foglietti, che venivano introdotti in un sacchetto di seta rossa, dal quale si estraeva il nome dell’eletto. Gli elenchi venivano spesso rivisti, a causa dei mutamenti delle condizioni relative all’eleggibilità. Gli accoppiatori che provvedevano allo scrutinio mettevano nei sacchetti i nomi di persone favorevoli ai Medici

Con la repubblica i mediani riuscirono a far sostituire il sorteggio dei magistrati, tanto caro agli aristocratici, con l’elezione, credendo che potesse favorirli; ma, al contrario, essi stessi preferirono eleggere personaggi noti dell’aristocrazia, in quanto li ritenevano più affidabili. A quel punto si invertirono le posizioni: gli aristocratici optarono per l’elezione, mentre i popolari sostennero il sorteggio. Alla fine si decise per una soluzione “all’italiana”, come i sistemi elettorali mattarellum, porcellum, rosatellum progettati dai parlamentari dei nostri tempi: combinazione di sorteggio ed elezione per il Consiglio Maggiore

GIROLAMO SAVONAROLA E LA RIFORMA MORALE E POLITICA 
Girolamo Savonarola

Tra il 1494 e il 1498 il frate Girolamo Savonarola divenne la figura di spicco della rivoluzione repubblicana. Egli non assunse mai incarichi di governo, ma preferì svolgere la funzione di suggeritore per una riforma morale e politica. Così il vero compito della politica doveva essere l’amministrazione della giustizia, sorretta da una costituzione data da Dio; il buon governo, così ben raffigurato da Ambrogio Lorenzetti, non può ammettere le fazioni. Savonarola fu ammirato principalmente dai mediani e persino da alcuni aristocratici, tra cui Piero Guicciardini, padre di Francesco.

L’aristocrazia progettò una riforma del sistema fiscale per indebolire il potere del Consiglio Maggiore, tanto caro alle classi medie. La proposta consisteva nell’istituzione di un consiglio deliberativo composto di duecento membri a vita, di cui ottanta eletti dal Consiglio Maggiore, novanta provenienti dalle famiglie nobili e i rimanenti trenta tra gli ex gonfalonieri di giustizia, gli ex membri dei Dieci e gli ex ambasciatori. Tale consiglio avrebbe dovuto stabilire le misure finanziarie. Ma la proposta aristocratica non fu accettata dai popolari. Nel 1502 Francesco Pepi, oratore del quartiere di S. Croce, propose un consiglio di tre o quattrocento membri, scelti dalla Signoria, con il compito di nominare il Consiglio dei Dieci, ambasciatori e commissari, nonché di approvare con maggioranza di due terzi le leggi finanziarie. Due anni prima fu approvata la decima scalata, un’imposta graduale in proporzione alla ricchezza posseduta. Tale scelta, voluta soprattutto dai popolari, aveva lo scopo di colpire gli aristocratici, principali detentori della ricchezza.

Il regime repubblicano fu caratterizzato non solo dalle riforme, ma anche dalle continue contese che contribuirono alla sua caduta nel 1512. In aggiunta, allo scorrere del XV secolo la scarsità dei raccolti e le guerre continue, che restrinsero i commerci e limitarono la produzione, assestarono un altro colpo fatale.

Nel 1512, poco prima del ritorno dei Medici, gli aristocratici riuscirono a imporre un programma di riforme. In primo luogo limitarono il governo del gonfaloniere a un anno; quindi obbligarono tale magistrato ad aprire la corrispondenza di Stato alla presenza di altri due membri della Signoria, mutuando la consuetudine veneziana secondo la quale il doge non poteva compiere quell’operazione privatamente. Imitando ancora una volta la Serenissima, fu creato un Senato con ottanta membri eletti dal Consiglio Maggiore e con l’aggiunta di ex gonfalonieri, ex ambasciatori, ex magistrati del Consiglio dei Dieci; i senatori a loro volta avrebbero eletto altri cinquanta colleghi. Il Senato avrebbe diretto la politica di Firenze, avrebbe approvato con i due terzi le misure fiscali, avrebbe nominato i maggiori organi di governo. Così sostituiva nel ruolo di centralità nella politica il Consiglio Maggiore, al quale restava l’elezione annuale del gonfaloniere

I fiorentini erano consapevoli del fatto che la loro repubblica non era in grado di prendere iniziative in politica estera. Pertanto, indugiavano nel fare le loro scelte per quanto concerneva le alleanze; allora preferivano prendere tempo e nel contempo rimanere neutrali. La repubblica alfine decise di scegliere l’alleanza con la Francia, trovandosi di conseguenza in conflitto con Milano e la Chiesa. Allora il lungo tergiversare dei fiorentini avrebbe fatto commettere loro un passo falso? Non è proprio così, poiché i loro traffici commerciali, che non volevano bloccati, erano soprattutto rivolti verso la Francia.

MACHIAVELLI E UNA NUOVA CONCEZIONE DELLA STORIA

Torniamo ora a Machiavelli. Lo scrittore fiorentino raccoglieva le sue esperienze politiche per costruire una nuova concezione della storia. Intanto negli Orti oricellari, promossi da Bernardo Rucellai nei primi anni del Cinquecento, si discuteva di storia e di politica. Francesco Guicciardini, a proposito di quel cenacolo di cultura aristocratica, afferma: “di quell’orto, come si dice del cavallo troiano, uscirono le congiure, uscinne la ritornata de’ Medici, uscinne la fiamma che abruciò questa città”.

Machiavelli era fermamente convinto che la storia antica fosse “la guida per le azioni dell’uomo” e che dal passato derivava il futuro. 

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Considerava Roma l’unico modello di città-Stato trasformatasi in impero; la sua società politica poteva diventare un esempio da imitare ancora nel Cinquecento. Ma a lui interessava principalmente la Roma repubblicana. Un esempio a riguardo della validità delle asserzioni storiche machiavelliane è rappresentato dal parallelismo tra la fine di Savonarola e quella di Cesare: il frate imprigionato non fu messo sotto tortura al fine di fargli confessare i nomi dei suoi seguaci, perché una simile indagine avrebbe potuto far crescere la tensione in città; Cesare, una volta vinto Pompeo, non volle analizzare la sua corrispondenza, privandosi di un’occasione più unica che rara di scoprire i suoi nemici, evitando il suo assassinio. 

Machiavelli aveva progettato di far diventare la politica una sorta di scienza, a livello dell’arte, del diritto, della medicina, codificando i principî degli antichi. Introducendo il suo programma, egli considera innanzitutto gli uomini cattivi, poiché perseguono fini egoistici. Ne consegue un acceso confronto tra interesse privato e bene comune. La frenetica ricerca della ricchezza rappresenta un male inalienabile. Da qui deriva l’opinione negativa che lo scrittore fiorentino aveva per l’impero romano, figlio della degenerazione nella quale sarebbe caduta la repubblica a seguito della legge agraria dei Gracchi, motivo scatenante delle lotte intestine tra il senato e il popolo per l’accaparramento della ricchezza. In definitiva Machiavelli sostiene che l’interesse privato sia legittimo e naturale, ma, quando entra in conflitto con il bene comune, allora deve cedere a vantaggio di quest’ultimo. Non ritiene, erroneamente secondo noi, fondamentali i fattori economici nella politica; noi siamo convinti che la politica sia figlia dell’economia in ogni tempo e in ogni luogo. Lo scrittore fiorentino considera negativa la neutralità nei rapporti internazionali, mentre preferisce l’azione

LA RAGIONE E LA FORTUNA

Ai suoi tempi i pensatori ritenevano che gli uomini erano in balìa di due forze, la ragione e la fortuna. La prima governa le forze razionali, mentre la seconda le irrazionali. Si riteneva la fortuna proveniente da Dio, per cui bisognava cavalcarla al suo apparire, tenendo presente il detto classico audaces fortuna iuvat. Alla forza Machiavelli dà un’importanza fondamentale in politica. Egli è convinto che esistono due forme di combattimento: una mediante le leggi, l’altra con la forza. Sebbene la prima sia umana e la seconda bestiale, spesso proprio quest’ultima sarebbe stata in grado di risolvere situazioni incresciose; comunque l’uso delle armi dev’essere l’ultima istanza. 

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Nelle sue opere, soprattutto nel Dell’arte della guerra, Machiavelli considera che l’uso dei mercenari sia nocivo in modo assoluto; per cui è certo che solo le milizie cittadine sono in grado di difendere la patria, poiché legate alla loro bandiera e non ai soldi. Sottolinea, intanto, le significative capacità degli svizzeri quali efficaci combattenti; per questo il pontefice, nella sua pragmaticità, li aveva assoldati, trasformandoli in un corpo speciale a difesa della sua persona. Ma tra Quattro e Cinquecento la guerra aveva ormai mutato aspetto: le sempre più potenti artiglierie, composte da bombarde, colubrine e archibugi, spazzavano via fanterie e cavallerie e sfondavano i murinon adeguatamente spessi delle fortificazioni.

Lo scrittore fiorentino pone a confronto la virtus e la fortuna: la prima sarebbe per lui la forza che genera le azioni umane, una qualità innata prerogativa per esercitare il comando, che può essere posseduta da un singolo individuo, il princeps, oppure da un collegio di savi; la seconda è imprevedibile, per cui, quando si manifesta, occorre saperla cogliere e girare a proprio vantaggio. Egli valuta la consistenza della virtus per metà e per l’altra metà la fortuna. In considerazione di tali elementi, il princeps deve agire con l’astuzia della volpe e con la forza del leone. 

Secondo Machiavelli i principati sono di tre tipi: ereditario, cioè d’impianto monarchico, come le dinastie di alcuni regni o signorie; nuovo, quando un personaggio o una famiglia assurge a capo di uno Stato, come gli Sforza a Milano; misto, quando un principe conquista e annette altri territori. 

In quest’ultimo caso Machiavelli suggerisce al principe come tenere ben salda l’entità statale appena sottomessa, la quale era avvezza a governarsi con propri magistrati e proprie leggi. A suo parere le possibilità sono tre: 

radere completamente al suolo la città principale e i suoi centri di potere, come fecero i romani nei confronti di Cartagine, imponendo proprie leggi e magistrature, ma Roma era allora una repubblica e non un principato

andarvi il principe a vivere personalmente nella città principale dello Stato occupato, essendo per lui sicuro il vecchio principato, come si regolò, diremmo noi, il duca di Amalfi Mansone I quando occupò il principato longobardo di Salerno; 

lasciare allo Stato conquistato di continuare a governarsi con le proprie leggi e consuetudini sotto il controllo di un’oligarchia locale a lui fedele, riservandosi la riscossione di un tributo, come fecero i normanni nei confronti degli amalfitani e dei gaetani

A proposito dell’episodio di Mansone, bisogna precisare che la sua occupazione salernitana durò appena due anni, perché non fu adeguatamente appoggiato dall’aristocrazia mercantile amalfitana, desiderosa di vivere in pace per non guastare i suoi commerci.

IL FINE CHE GIUSTIFICA I MEZZI 

Machiavelli riporta un suggestivo episodio accaduto ai suoi tempi in Italia centrale. Il duca Valentino, Cesare Borgia, dopo aver occupato uno staterello vicino, inviò ad amministrarlo un suo fiduciario, al quale raccomandò di essere crudele e spietato con i nuovi sudditi. Col passare del tempo la popolazione prese in odio il governatore. Senza preavviso giunse Cesare Borgia, impiccò l’uomo al quale aveva precedentemente comandato le nefandezze e fu acclamato come liberatore. E’ questo il fine che giustifica i mezzi?

Cesare Borgia, foto tratta da Wikimedia

Machiavelli si pone il quesito circa il governo largo o il governo stretto: sceglie la prima soluzione; pertanto, è contrario all’oligarchia. Ma si oppone pure all’aristocrazia, alla quale addebita la responsabilità della fine della repubblica a Firenze. Allora egli è favorevole al regime popolare. Così lo Stato libero aveva necessariamente bisogno di homines politici, cioè gli esponenti della classe mediana opportunamente preparati a livello degli aristocratici.

Conciliando le apparenti contrapposte idee machiavelliane evidenti nel Principe e nei Discorsi, si può arguire che il modello proposto dallo scrittore fiorentino preveda la fondazione di un principato nazionale italiano, organizzato da uno scaltro principe come Cesare Borgia sulla base di un’efficace legislazione e di un apparato solido; alla morte del principe fondatore sarebbe successa una repubblica guidata da un collegio di savi. L’improvvisa morte del pontefice Alessandro VI, suo padre e protettore, fece fallire il progetto del Valentino, che andò in bassa fortuna. Allora l’appello di Machiavelli fu rivolto a Lorenzo II dei Medici; ma costui rimase sordo, legato com’era alla potenza spagnola, che gli aveva permesso di tornare a essere signore di Firenze.

FRANCESCO GUICCIARDINI teorico della politica aristocratica fiorentina

La lezione machiavelliana era destinata a fare fortuna: il suo Principe era sul comodino di Stalin, fu letto e interpretato da Mussolini, Gramsci e Lenin, il quale fece propria la dottrina di Machiavelli, raccomandando, in punto di morte, ai suoi collaboratori: “Dopo di me un collegio unito e concorde; mi raccomando, impedite a quel criminale di Stalin di succedermi!”. Purtroppo, come la storia ci insegna, non fu ascoltato.

L’altro grande studioso fiorentino di politica, amico e avversario di Niccolò Machiavelli, è Francesco Guicciardini. Egli fu particolarmente protetto dai Medici, ai quali fu sempre legato.

Francesco Guicciardini, la statua che si trova agli Uffizi di Firenze

Vediamo più da vicino quali sono le sue opinioni sui principi. Egli è innanzitutto affascinato dallo spagnolo gran capitano Gonzalo Fernandez de Còrdoba, grande condottiero. Ma accusa Ludovico il Moro, signore di Milano, la cui esagerata ambizione sarebbe stata la rovina dell’Italia. Anche nei confronti dei sovrani nutre considerazioni negative: Francesco I di Francia pensava più all’apparenza che alla sostanza; Carlo V era inesperto, succubo dei suoi consiglieri. Lorenzo il Magnifico e Ferdinando d’Aragona assicurarono all’Italia pace e prosperità; i loro figli rovinarono tutto. Guicciardini dichiara che Lorenzo fu un tiranno migliore e più piacevole; potremmo avvicinarlo a Pisistrato e a Pericle, o meglio a una fusione dei due. Consolida questo pensiero, precisando che il signore di Firenze aveva le virtù della prudenza, della liberalità, della magnificenza, bilanciate in negativo da vizi quali l’arroganza, la crudeltà, la vendetta, il sospetto; restava, comunque, un principe di multiforme ingegno. 

Guicciardini non condivide l’idea machiavelliana del modello perfetto di amministrazione politica relativo a Roma. Oppone al concetto di importanza della conoscenza della storia quale esempio da tener presente per la costruzione del futuro politico, sottolineando la diversità tra teoria e pratica. Quindi non c’è una regola per scrivere la scienza politica, invece bisogna analizzare caso per caso e comportarsi di conseguenza all’occorrenza. Questa è la sua teoria della discrezione, associata al concetto del particulare, secondo il quale, per essere in grado di effettuare scelte opportune e mirate in politica, bisognerebbe conoscere tutti i molteplici dettagli della situazione, cosa assolutamente impossibile. Da qui possiamo desumere che Guicciardini non sarebbe affatto d’accordo con la definizione di storia fornita da Anna Comneno: essa non sarebbe un fluire continuo di accadimenti, ma un fascio di segnali discreti impossibile da arginare in toto tramite “il muro della storia”. E’ come la visione della fisica dall’osservatorio della meccanica quantistica e dei suoi quanti, profondamente diversa da quella della fisica classica e del suo continuo

L’obiettivo principale di Guicciardini è, in effetti, una repubblica dei nobili, perché egli è convinto che soltanto gli aristocratici hanno la competenza e l’esperienza atte a governare, mentre i mediani ne sono completamente a digiuno. Così possiamo definire Guicciardini come il teorico della politica aristocratica fiorentina.

Vediamo quali sono le sue opinioni sul governo della repubblica di Firenze. Innanzitutto ritiene il Consiglio Maggiore organo fondamentale, che deve eleggere le cariche governative, la cui durata non deve essere breve, perché devono avere il tempo necessario per poter bene operare. 

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Poi il gonfaloniere deve essere eletto a vita, ma i suoi poteri devono essere limitati soprattutto per quanto riguarda le proposte di legge da sottoporre all’approvazione del Consiglio Maggiore: tali proposte non devono essere necessariamente collegiali da parte della Signoria, ma anche di un singolo membro. Inoltre la Signoria non avrebbe dovuto giudicare e punire i delitti di Stato e inviare missioni diplomatiche. E’ d’accordo circa la creazione di un senato di duecento membri a vita: ottanta eletti dal Consiglio Maggiore, trenta dalla Signoria, dai sedici gonfalonieri e dai dodici buonuomini, i rimanenti novanta devono essere ex gonfalonieri, ex membri dei Dieci, ex ambasciatori e commissari. Il Senato avrebbe controllato la politica estera mediante ambasciatori e commissari militari, nonché il Consiglio dei Dieci; inoltre avrebbe discusso e approvato le leggi prima di inoltrarle al Consiglio Maggiore e controllato la legislazione fiscale

In definitiva, i pilastri della proposta costituzionale guicciardiniana di Firenze risultano essere: gonfaloniere a vita, Senato, Consiglio Maggiore; guarda caso corrispondenti a monarchia, aristocrazia, democrazia indicate da Machiavelli sulla scorta dell’esempio romano e della lezione di Platone. Il ritorno dei Medici convinse Guicciardini che Lorenzo II poteva svolgere il ruolo del doge di Venezia, in un sistema politico di democrazia aristocratica

Anche Guicciardini come Machiavelli ritiene l’invasione straniera dell’Italia, sia essa francese o spagnola, con il conseguente abbattimento di principati e di repubbliche, assolutamente deleteria, perché oltre a sopprimere le libertà costituite, procurava pure depauperamento del patrimonio artistico, con l’accaparramento di opere d’arte da parte degli invasori, e cambiamenti nella morale e nel modo di vivere degli assoggettati. 

Prendendo spunto dagli scritti di Tacito sui germani, valuta in positivo gli effetti della scoperta dell’America, nell’ottica di una possibile imitazione della creazione di un mondo senza cupidigia e ambizione simile alla società degli indios, anticipando, per così dire, la teoria del buon selvaggio di Voltaire

GIAMBATTISTA VICO E LA TEORIA DEI CORSI E RICORSI STORICI

La lezione di politica come scienza, inquadrata sotto il profilo storico da Machiavelli, insieme ai pensieri di Guicciardini fondati sull’esperienza, trovarono fortuna nel Seicento, secolo di ferro dominato dal Barocco, dalla Controriforma e dalla rivoluzione scientifica galileiana. In particolar modo il Meridione d’Italia e l’Inghilterra contribuirono a una loro evoluzione filosofica associata a una concreta applicazione sperimentale.

Giambattista Vico e la statua che si trova a Napoli nella Villa Comunale

Ci riferiamo in primo luogo a Giambattista Vico, che considera la Storia una scienza nuova, la cui protagonista sarebbe la Provvidenza. Pertanto, egli mette un punto fermo contro l’ateismo, sottolineando l’importanza della religione per le società di qualsiasi epoca. Ne consegue un rapporto stretto tra la Provvidenza divina e la Storia umana: la prima, servendosi dei mezzi della natura, va a identificarsi con le leggi sociali dello sviluppo storico. Vico afferma: “Verum et factum reciprocantur seu convertuntur”, evidenziando la conversione del vero e del fatto l’uno nell’altro e la loro coincidenza. 

Riferendosi ai cicli storici della civiltà classica, egli individua tre età:

età degli dei dominata dalla teocrazia e contrassegnata dal potere della divinazione;

età degli eroi segnata dall’aristocrazia, nella quale si sviluppa la mitologia;

età degli uomini rappresentata dalla democrazia e dalla libertà.

Le prime due possono essere unificate nell’età preistorica e viste come infanzia dell’umanità, nelle quali gioca un ruolo predominante la fantasia. La terza età segna la nascita delle nazioni e l’evoluzione verso la razionalità, testimonianza dell’avvenuta maturità.

Queste idee portarono Vico all’ideazione della teoria dei corsi e ricorsi storici, la cui evoluzione lungo l’asse passato-futuro avviene tramite un moto a spirale, i cui tratti paralleli sono simili, ma non uguali, tra loro. 

Ciò significa che la conoscenza del passato può permetterci il governo del presente, in quanto gli avvenimenti accaduti possono ripetersi, anche se in condizioni simili; per ottenere questo, occorre inquadrare bene le situazioni. Ad esempio, la demagogia, degenerazione, per eccesso di libertinaggio, della democrazia classica, si manifesta ancora oggi; l’evoluzione successiva nelle poleis dell’Antichità era la tirannide, che però ora non avviene, almeno nel mondo occidentale, a causa di condizioni al contorno estremamente vincolanti non esistenti nel mondo greco. 

Vico individua il I ciclo dalla preistoria all’impero romano (corso), il II ciclo dalle invasioni barbariche al Medioevo e, quindi, all’Età Moderna (ricorso). 

Allo studio e all’analisi dei fatti storici si era già interessata nel secolo precedente la storiografia riformata, dalla cui scuola era emerso Keller, colui che associò il nome di Medioevo al millennio che collega l’Antichità all’Età Moderna. Le idee sociali connesse alla riforma di Lutero contribuirono al progresso di quelle comunità europee che le accettarono, gettando le basi sulle quali si fonderà poi la democrazia moderna

Storia della politica: le prime forme di governo dell’Umanità. Dalle formiche alle donne di potere

Il progetto platonico di Utopia e del “governo dei tecnici” venne rispolverato nell’Inghilterra di Enrico VIII, fondatore della Chiesa anglicana. Thomas More scrisse un’opera omonima, nella quale immagina un’isola abitata, come Atlantide, da una società perfetta. In una prima fase egli individua una città reale, che dev’essere paragonata all’Inghilterra, dove la giustizia era implacabile, al punto da comminare la pena di morte anche per un semplice furto. More non è d’accordo a un ritorno al Medioevo, contraddistinto dal regno dei Plantageneti; esclude, altresì, miglioramenti economici relativi all’industria manifatturiera per la produzione della lana, fondati su di un’economia mercantile che possa favorire benessere sociale. Egli anticipa idee che nel secolo successivo saranno alla base del comunismo barocco, come ci permettiamo di definirlo, proposto da Tommaso Campanella: More vuole l’abolizione della proprietà privata e l’equa ripartizione dei beni materiali. Allora prospetta una città perfetta, dove ogni cittadino deve coltivare, per sei ore al giorno, la terra a lui assegnata per un tempo massimo di due anni; nelle restanti ore giornaliere può dedicarsi a passioni e professioni abituali, nonché allo studio delle scienze e della filosofia. In quella città dev’esserci tolleranza religiosa e la famiglia è l’elemento fondante, protetta dalla condanna dell’adulterio, ma nel contempo fornita della licenza del divorzio. Nel Nuovo Mondo egli sperava che potesse nascere la città perfetta grazie al contributo degli inglesi e degli europei che abbandonavano il vecchio continente alla ricerca della fortuna e con l’intenzione di formarsi uno nuova vita. 

Thomas More, foto tratta da Wikimedia
TOMMASO CAMPANELLA E IL COMUNISMO BAROCCO 

Al comunismo platonico si rifà Tommaso Campanella per il suo comunismo barocco, infatuato anch’egli dalla fama conquistata dal filosofo greco tra i pensatori del Rinascimento. Il comunismo dell’Utopia di Platone si basa su di un’oligarchia di filosofi, detentori del sapere e perciò in un certo senso tecnici, che governano mettendo tutti i loro beni in comune, al fine di evitare la corruzione. Quindi la società è distinta in tre classi: aurea, composta dai governanti-filosofi; argentea, formata dai guerrieri; bronzea, costituita dai lavoratori.

Tommaso Campanella, immagine tratta da Wikimedia

La Città del Sole è l’isola utopica di Campanella, perduta nei mari del Sud. Il Sole, principe e sacerdote, è a capo della comunità; egli è il Metafisico, che detiene i poteri spirituale e temporale. E’ di più rispetto ai re-sacerdoti dell’Antichità, poiché è un filosofo depositario di erudizione, conoscenza teorica e pratica, creatività, competenza e capacità tanto declamate nell’attuale scuola italiana. Somiglia al comunismo patriarcale degli Incas, dove Ataualpa, il figlio del Sole, era il proprietario assoluto; rappresentando egli lo Stato, ne consegue che la proprietà era completamente pubblica e veniva affidata temporaneamente ai privati.

Il Sole di Campanella è coadiuvato da tre principi assistenti: Sin, che incarna la sapienza scientifica; Pon, esperto della pace e della guerra; Mor, che si interessa di procreazione, educazione, lavoro

La Città del Sole, nella sua forma di civitas lapidum, presenta una simmetria circolare; la sua topografia si sviluppa in senso verticale su di una collina. E’ circondata, come il nobile Castello dell’Inferno dantesco, da sette cinte di mura rispecchianti i sette pianeti allora conosciuti. In base ai punti cardinali gli accessi sono costituiti da quattro porte. Sulla sommità si erge il Tempio del Sole d’impianto circolare, con cupola affrescata della volta celeste e altare circolare diviso a croce, sul quale sono poggiati il globo terrestre e la sfera celeste. Il simbolismo circolare e cosmico sembra richiamare quello d’influsso templare a forma ottogonale di Castel del Monte. Riflettendo sulla proposta di More, Campanella assegna ai solari quattro ore di lavoro giornaliero e il resto della giornata per le attività ludiche e di studio.

Il malgoverno spagnolo del Seicento in Italia dovette essere la fonte ispiratrice delle idee rivoluzionarie del filosofo calabrese, che dal potere centrale furono ritenute innocue follie fantastiche. Le continue guerre sostenute dalla corona di Spagna in Europa furono la causa della crescente pressione fiscale, che colpiva non tanto la plebe, in quanto composta in gran parte da nullatenenti, ma soprattutto la classe media, l’unica obbligata a pagare le tasse, essendo esenti nobili e clero secolare e monastico. La guerra del Monferrato, appendice del conflitto dei Trent’anni, combattuta da francesi e spagnoli per la successione al ducato di Mantova, provocò nel 1628 carestia e pestilenza. La scarsità del grano produsse l’aumento del prezzo di acquisto dai contadini, che determinò il lievitare del costo della farina, per cui i fornai furono costretti più volte a richiedere all’utenza una meta più alta per il pane. A quel punto il popolo insorse a Milano e saccheggiò i forni. L’episodio dell’assalto all’abitazione del vicario di provvisione, ritenuto responsabile di quell’aumento, descritto ne I Promessi Sposi, rappresenta una testimonianza dell’abilità e della scaltrezza politica dei governanti spagnoli. L’intervento del cancelliere Ferrer, che con indomito coraggio passa in carrozza tra la folla inferocita e reclamante giustizia, ne costituisce un chiaro esempio. Egli assicura che farà giustizia dopo aver arrestato il vicario e dopo regolare processo. Imbarcato il malcapitato in carrozza, sussurra al cocchiere: “Adelante Pedro, ma con iudicio”, invitandolo ad accelerare l’andatura ma non troppo, perché una corsa forsennata avrebbe creato sospetti nella folla e un cammino lento avrebbe consentito un ripensamento pericoloso. Il giorno seguente, individuati, mediante agenti segreti mescolati tra i crocchi, alcuni capi facinorosi, le autorità spagnole li arrestano e li impiccano nelle vie principali, esponendoli con lo scopo esemplare dell’intimidazione.

Due anni dopo un’altra rivolta del pane scoppiò a Napoli, anch’essa repressa, che ha lasciato nella memoria il ricordo di un canto: “ in galera li panettieri/ mo’ cà s’erano arricchuti/ se credevano cavalieri”

Già nel 1547 una rivolta interna aveva messo in subbuglio Napoli, allorché Giovanni Naclerio di Agerola scorazzò a cavallo coi suoi accoliti per le strade della città. Si trattava dei fuoriusciti, orde di briganti, che minacciavano taglieggiando le popolazioni locali, in special modo ai confini settentrionali del viceregno e nel ducato di Amalfi, come conferma una lettera del viaggiatore inglese Thomas Hoby, ospite per una notte dei duchi Piccolomini nel castello sopra la città marinara.

MASANIELLO E IL POTERE AL POPOLO 
La grotta di Masaniello ad Atrani

Una vera e propria rivoluzione popolare si sarebbe verificata esattamente cento anni dopo nella capitale. Scoppiò a causa dell’improvviso aumento della tassa sulla frutta, caratteristica goccia che fece traboccare il vaso. In carcere l’eletto del popolo Giulio Genoino istruì il pescatore-pescivendolo Tommaso Aniello d’Amalfi, detto Masaniello, finito lì per contrabbando, ma dotato di un forte carisma, circa un’ideologia rivoluzionaria tesa a portare al potere il ceto popolare. Una volta tornato in libertà, Masaniello, consigliato sempre da Genoino, capeggiò la rivolta organizzata con i giovani lazzaroni, riuscendo a conquistare il potere, a diventare capitano generale del popolo napoletano, a costringere il vicerè alla ritirata. Il cardinale Filomarino, membro di un’antica nobile stirpe napoletana e arcivescovo della città, esprimeva la sua opinione favorevole alla rivoluzione in una lettera inviata al papa, speranzoso nella cacciata degli spagnoli. I francesi, intanto, inviavano una flotta nel golfo in appoggio e in chiave anti-spagnola. Genoino puntava all’affermazione della classe mediana affocata dalle tasse e si serviva di Masaniello per ottenere l’appoggio della plebe. Genoino aveva stabilito più di ventisette anni prima, quale eletto del popolo, in accordo col vicerè Ossuna, una riforma amministrativa, la quale prevedeva: il ridimensionamento del potere dei seggi, la centralità del ruolo politico del popolo, un equilibrio costituzionale del regno realizzato mediante la creazione del primato del collaterale, consistente nella facoltà concessa a quest’ultimo di assumere la direzione del governo in assenza del vicerè. La nuova magistratura andava ad associarsi al consiglio composto dal vicerè e da cinque giuristi. Tale riforma aveva lo scopo di porre sullo stesso livello nobili e popolo. In tal modo la classe mediana, le cui tasse mantenevano l’apparato statale, otteneva giustizia, entrando a far parte a pieno diritto dell’amministrazione cittadina e regnicola. Ma nel 1638 il colpo di mano del collaterale annullava le conquiste raggiunte e procurava il carcere a Genoino. La rivoluzione di Masaniello di nove anni dopo produceva una nuova riforma: l’eletto del popolo Andrea Naclerio, che si era abbacchiato coi nobili, veniva sostituito nell’incarico dal nipote di Genoino; venivano create compagnie e squadre di popolani al servizio del capitano generale del popolo; erano abolite le gabelle; si adottavano nuove tabelle dei prezzi dei commestibili; veniva stabilita la parità di voto tra popolani e nobili. 

A tali iniziative seguì una violenta repressione contro i nobili. Masaniello governava, comunque, in nome e per conto del re di Spagna e abbatteva il  malgoverno precedente. Sia l’eroico pescatore che il suo suggeritore Genoino credevano che il potere centrale non avesse alcuna responsabilità sugli aumenti delle imposte indirette nel viceregno di Napoli; in realtà era proprio la corte di Madrid la vera responsabile degli aumenti fiscali, poiché aveva necessario bisogno di denaro per finanziare le guerre. Intanto Masaniello poneva fine al triste fenomeno dei fuoriusciti, convocando a palazzo con un inganno i loro capi, per poi eliminarli fisicamente.

Di fronte alla repressione della nobiltà, il cardinale Ascanio Filomarino, per difendere la classe alla quale apparteneva, suggerì a Masaniello di incontrare il vicerè e di mediare con lui, allo scopo di facilitare l’accettazione e l’approvazione della rivoluzione napoletana da parte di Madrid. Così il capitano generale si recò più volte a Posillipo dal vicerè e nel corso dei sontuosi banchetti offerti in suo onore sarebbe stato puntualmente drogato. Da qui sarebbe scaturita la celebre pazzia di Masaniello, la quale non fu affatto una montatura di testa per il potere conseguito, che raggiunse l’epilogo con l’attentato del 16 luglio 1647, festa della Madonna del Carmine, quando il capitano generale del popolo napoletano cadeva nella chiesa della Madonna dell’Arco colpito da quattro archibugieri. 

LA REPUBBLICA NAPOLETANA 

Ma quella rivoluzione, durata appena nove giorni, proseguì grazie a Enrico II di Lorena duca di Guisa, che costituì la Repubblica Napoletana, riconosciuta dalla Francia, le cui monete, recanti l’iscrizione SPQN (Senatus Populus Que Neapolitanus), richiamavano l’eredità romana con orgoglio. Il ritorno in massa delle truppe spagnole nella primavera del 1648 spazzava via ogni conquista. La madre di Masaniello, Antonia Gargano di Atrani, e sua moglie Bernardina Pisa furono umiliate alla vita da prostitute. Una tradizione popolare, già viva alla fine del XVII secolo, ricorda la Casa di Masaniello accanto alla chiesa di S. Maria de Bando di Atrani, con la vicina Grotta di Masaniello, nella quale si sarebbe rifugiato l’eroe del popolo napoletano prima di essere assassinato. Della sua rivoluzione restava una coppola rossa, il berretto frigio dei pescatori (magnosa), come recita il coevo canto popolare ‘O cunto ‘e Masaniello, quella coppola rossa che, colma delle idee rivoluzionarie, giungeva immediatamente nell’Inghilterra di Oliver Cromwell. Intanto nella Costa d’Amalfi qualcuno ideava i vermicelli alla Masaniello, conditi con acciughe fresche, olio d’oliva, prezzemolo, mentuccia, aglio, sale e succo di lemon Amalfitanum

L’Inghilterra già dai tempi di Elisabetta dominava ormai i mari, soprattutto dopo aver liquidato l’Invincibile Armada nella celebre battaglia della Manica, nel corso della quale le leggere e agili unità navali inglesi sbaragliarono i grossi e lenti galeoni spagnoli. In aggiunta, Francis Drake e il pirata Morgan, sotto la falsa bandiera nera caricata delle ossa incrociate e del teschio, assestavano colpi irreparabili ai vascelli spagnoli, che, carichi di ricchezze, navigavano nel Mar dei Caraibi. Ancora, gli inglesi toglievano agli spagnoli il controllo e la gestione della tratta degli schiavi dall’Africa. Il conseguente esaurimento delle miniere americane d’oro e d’argento, grazie alle quali la nobiltà fannullona aveva vissuto di rendita, produceva un’irreversibile crisi alla Spagna

OLIVER CROMWELL E LA SUA RIVOLUZIONE REPUBBLICANA
Oliver Cromwell, una statua che si trova a Londra fuori dalla Camera dei Comuni del Regno Unito a Westminster

La società inglese presentava, comunque, anch’essa i suoi problemi. Si era affermato, soprattutto da Enrico VIII in poi, il principio assolutistico, contemporaneamente determinatosi in Francia dalla dinastia dei Bourbon. In base a tale principio il diritto divino dei sovrani, in quanto Dei gratia reges, e la successione dei propri figli erano inviolabili, insieme all’infallibilità delle loro azioni. Naturalmente, per ottenere il rispetto di questi principî, il re si alleava con la nobiltà, dalla quale d’altronde era emerso, assegnandole vari privilegi. Questo stato di cose aveva determinato in Inghilterra un forte divario con la classe mediana, la quale gestiva produzione e commercio e versava contributi per l’apparato statale. Pertanto, aspirando ad occupare posti di comando, entrò in urto con la nobiltà. A quel punto entrarono in campo le idee rivoluzionarie di Masaniello, di cui si servì Oliver Cromwell per la sua rivoluzione repubblicana. Così prese il potere con l’appoggio dei borghesi, giustiziando il re e creando il Commonwealth, il benessere comune, anticipando l’idea del diritto alla felicità dei filosofi illuministi. Quindi abolì la Camera dei Lords e revocò numerosi privilegi della nobiltà. Gettò le basi della grande potenza marittima e imperialistica dell’Inghilterra. Alla sua morte, però, tornò la monarchia, perché divenne inviso alla popolazione, per aver assunto posizioni assolutistiche. Il re Carlo II dovette accettare una monarchia costituzionale e adeguarsi alla nuova realtà inglese, che alla fine del secolo faceva un importante passo avanti sulla strada della democrazia liberale, con la formazione dei due partiti politici dei tories (conservatori) e dei whigs(liberali), praticamente le fazioni dei nobili e dei borghesi.  

L’ANCIEN REGIME FRANCESE 

In quello stesso 1648 il parlamento parigino insorgeva contro l’assolutismo della corona allora sostenuto, per la reggenza di Anna d’Austria, dal primo ministro, il cardinale Mazzarino. I parlamentari, che ritenevano di svolgere un compito di controllo nei riguardi del sovrano, si organizzarono nel movimento della Fronda (fionda). Fu allora che lo spadaccino, poeta e inventore Hector Savinien Cyrano signore di Bergerac scrisse Les Mazarinades, versi ironici e satirici contro il cardinale impostore. Il movimento chiedeva la limitazione dei poteri del re e si batteva anche contro la pressione fiscale, che, come abbiamo potuto dimostrare, era un tema diffuso nel Seicento.

Luigi XIV detto Re Sole

Seguì poi la Fronda dei principi (1650-1653), sollevata dalla nobiltà, che pretendeva maggiori poteri. Le due Fronde fallirono a causa della divisione tra nobili e parlamento. In tal modo si rafforzò il potere del sovrano, che recepì a pieno la lezione del suo primo ministro. Una volta avuto lo scettro e scomparso il suo precettore, diede luogo all’ancien régime, un rigido assolutismo che gli permise di governare per lungo tempo la Francia sotto l’appellativo di Re Sole, con il quale divenne famoso in tutto il mondo. Le continue guerre da lui scatenate in Europa per affermare l’egemonia della Francia contribuirono notevolmente all’attribuzione di Secolo di ferro al Seicento. Affidò al ministro Colbert il compito di riformare il sistema fiscale del regno, al fine di sostenere lo sforzo economico richiesto dalle continue guerre. Costui doveva ridurre il debito pubblico e aumentare il gettito fiscale, un’operazione alquanto difficile, se si tiene conto del fatto che nobiltà e clero erano totalmente esenti dal pagamento delle tasse. Così dovette giocoforza confermare il sistema dell’appalto per riscuotere dalla borghesia. Nel settore economico ideò il colbertismo, una pratica mercantilistica fondata sulla concessione di privative e di monopoli. Favorì il commercio internazionale per importare metalli preziosi in Francia, riducendo i dazi doganali. Così venivano importate materie prime e prodotti semilavorati, che, rifiniti in Francia, potevano essere riesportati. Lo scopo principale di Colbert era il raggiungimento dell’autosufficienza economica. Inoltre procedette all’instaurazione di manifatture regie.

Luigi XIV creò un equilibrio politico che gli permetteva di restare ben saldo al potere. Approfittando della crisi economica in cui versava la nobiltà, in gran parte squattrinata a causa delle esose spese affrontate per mantenere un alto livello di vita e dei disastrosi vizi, la relegò nella reggia di Versailles per tenerla sotto controllo, sostenendola con appannaggi e pensioni prelevate dal gettito fiscale, rimpinguato dalla classe borghese. A tale ceto egli riservava incarichi amministrativi e uffici vari.

L’idea dell’aristocrazia tenuta sotto controllo dal sovrano era già stata praticata al tempo dell’impero romano, quando l’imperatore Tiberio si ritirò a Capri, governando dalla Villa Jovis, un autentico palazzo imperiale, concentrando alcuni esponenti patrizi in dodici ville costruite sull’isola, come conferma Tacito. Nel XVIII secolo Carlo III, discendente di Luigi XIV e primo re Borbone di Napoli, costruiva, per un analogo motivo, la reggia di Caserta: il suo sistema di governo era il dispotismo illuminato…

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