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Bombe su Amalfi: quel giorno di luglio del 1943 

80 anni fa, nella notte tra il 17 e il 18 luglio 1943, un aereo alleato lanciò su Amalfi degli spezzoni incendiari, causando 11 vittime. In quel luglio seguirono i giorni che sconvolsero l’Italia: il 25 luglio Benito Mussolini fu fatto arrestare per ordine del Re Vittorio Emanuele III e capo del governo fu nominato il Maresciallo Pietro Badoglio. La caduta di Mussolini comportò la fine del Patto d’Acciaio, l’alleanza dell’Italia con la Germania. I Tedeschi avevano loro truppe in tutta la penisola e si affrettarono a farne venire altre ben corazzate. Il 3 settembre 1943 fu firmato a Cassibile l’armistizio separato dell’Italia, reso pubblico l’8 settembre 1943, seguito dallo sbarco a Salerno degli Alleati, i quali bombardavano la città e Battipaglia, importanti nodi stradali e ferroviari. 

Melina Fiorenza racconta nell’intervista che rilasciò a Rita Di Lieto (pubblicata sul numero cartaceo di E’Costiera, anno 2002) che ad Amalfi si seguiva il bombardamento senza curarsi del coprifuoco. Le luci hanno attirato l’attenzione degli Alleati che l’ hanno bombardata. Forse per ammonimento.

Quel bombardamento su Amalfi

Melina Fiorenza in un’immagine ritratta da giovane

Ferita nel corso di un bombardamento su Amalfi, durante il secondo conflitto mondiale, Melina Fiorenza in Anastasio, di anni 80 (nel 2002, ndr) ha passato buona parte della sua vita su una sedia a rotelle. Rievocando quella notte, dà sfogo alla sua indignazione contro chi fa la guerra, sacrificando civili inermi. Sentimenti comprensibili i suoi. In quel tragico evento perse la sorella di vent’anni Tittina, morta sul colpo, e il fratello diciottenne Franco che, ferito pure lui, mori qualche giorno dopo. Nella notte del 18 luglio 1943, verso mezzanotte, la campana del Duomo cominciò a battere i lenti e sinistri rintocchi dell’allarme. La famiglia Fiorenza non si allontanava mai da casa durante l’allarme, perché il papà Andrea diceva: «Se succede qualcosa, è meglio restare a casa. Così, se dobbiamo morire, moriamo tutti insieme. Se dobbiamo salvarci, ci salviamo tutti insieme».

Quella sera, però, non c’era.

L’articolo apparso su E’Costiera cartaceo (anno 2002)

Meccanico capogarage della SITA, era dovuto andare a recuperare fuori Salerno un autobus fermo per un guasto. C’era, invece, il fratello del padre, che abitava a Napoli e aveva, quindi, una grand’esperienza di bombardamenti. Giovanni Fiorenza convinse la madre e le sorelle ad uscire di casa per cercare un rifugio più sicuro. Le nipoti Melina e Tittina, che già dormivano, erano restie a muoversi, ma alla fine ubbidirono.

Si diressero verso il tunnel di via Matteo Camera e lo trovarono pieno di amalfitani seduti per terra. Uno spettacolo insolito per le ragazze, che provarono un certo disagio. Perciò, appena il ritmo della campana cambiò per segnalare il cessato allarme, furono le prime ad andare via.

Scesero a braccetto per cercare il fratello che ancora non era rincasato, ma sapevano che stava li vicino, ai piedi del monumento di Flavio Gioia, a mangiare un cocomero con gli amici.

I Carabinieri le bloccarono e non permisero loro di oltrepassare la Porta della Marina. Si fermarono, allora, con una vicina, Carmela Cassone, sorprese di incontrarla li. Spinta dal figlio, ella era uscita per seguire a distanza il bombardamento su Salerno e Battipaglia.

Gli aerei americani, che la contraerea di Salerno cercava di intercettare, bersagliavano, infatti, le più importanti vie di comunicazione e, naturalmente, tutti i punti strategici.

Il cielo era nuvoloso. Ed era bello quando le nuvole coprivano la luna. Affacciate ai balconi del palazzo prospiciente il mare, molte persone seguivano i bagliori della battaglia. Come uno spettacolo pirotecnico. “Si godevano la festa di Salerno. Per loro era una festa! Coi lampioncini”. Tali sembravano i mini paracadute con i razzi per illuminare i territorio lanciati dagli aerei.

All’improvviso si senti un sibilo, “un fischio“, e piovvero giù le bombe, a partire dal mare, poi in piazza Flavio Gioia e in via Mansone, fin quasi al Duomo.

«Nessuno ci disse di buttarci a terra – racconta Melina – C’erano i Carabinieri, c’era la Squadra Annonaria, venuta per un’indagine, perché Amalfi era in difetto per la farina. lo mi ritrovai a terra dove ora c’è il nuovo bar Savoia. Chiedevo aiuto, ma nessuno mi rispondeva. Pensavo che gli altri fossero scappati. Non mi potevo alzare. Strisciando per terra, bruciandomi le mani – dall’alto cadeva cenere mista a fuoco e i frammenti della bomba per terra erano ancora infuocati – arrivai sotto la Porta della Marina dove trovai mia nonna, mia madre e mia zia che, pure loro, erano state raggiunte dalle schegge all’altezza della farmacia degli Arsenali e avevano ferite varie, per fortuna non gravi. lo ero ferita alle gambe e avevo un buco nella schiena. E meno male che prima di colpirmi la scheggia aveva battuto sul muro della chiesa di Porto Salvo! lo stavo di spalle alla chiesa, che allora aveva l’entrata sulla strada. All’ospedale di Cava de’ Tirreni, dove fui portata, i medici mi dissero che per un pelo non era stato perforato il polmone. Purtroppo per mancanza di medicine, la ferita fece cancrena. Avevo la febbre a quaranta. Mio padre fece venire il dott. Naddeo, chirurgo dell’Ospedale di Salerno, amico di famiglia, il quale, dovette tagliare tutta la zona incancrenita, a crudo, senza anestesia“. Tra sofferenze atroci. Quelle sofferenze che Melina oggi vorrebbe fossero risparmiate ad altre persone.

Melina fu l’unica dei feriti ricoverati a Cava a far ritorno a casa. Ad Amalfi l’attendeva la terribile notizia della scomparsa della sorella e del fratello. Mons. Ercolano Marini accorse al suo capezzale, la benedisse e cercò di arrecare un qualche sollievo al suo immenso dolore.Donna forte, non si è lasciata piegare dalla sorte. Ha lottato tutta la vita e insieme al suo fedele Silvio, è a capo di una bella famiglia.

Durante l’incursione aerea anglo-americana del 18 luglio 1943 su Amalfi, vi furono 11  vittime.

I militari in servizio:

Pietro Culicchi, sergente di fanteria, anni 32; Pasquale Lenco, carabiniere, 21 anni;  Vincenzo Marra,45 anni; Antonio Russo, 33 anni e Gennaro Tatillo, 43 anni.

I marinari amalfitani:

Andrea Abbagnara, tipografo, 29 anni; Alberto Giovanni Smiraglia, elettricista, 20 anni.

Entrambi erano in congedo in attesa che la loro nave, danneggiata durante un bombardamento, fosse riparata

I civili:

Giuseppe Amatruda, 1 6 anni; Antonietta Fiorenza, universitaria, 20 anni; Francesco Fiorenza, prossima matricola universitaria, 18 anni; Carmela Benissimo in Cassone, commerciante, 64 anni.

(Nella foto di copertina: la scalinata del Duomo di Sant’Andrea, circondata dalla presenza dei carri armati americani. Il 9 settembre 1943 la 5a Armata USA, comandata dal generale Mark Clark, era sbarcata a Salerno con lo scopo di creare una testa di ponte per la conquista di Napoli e del suo porto)

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