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Augusta, scavi top secret al castello trovano mura greche e romane

AUGUSTA – Augusta riporta indietro l’orologio della sua storia. La penisola che si protendeva fra due incantevoli golfi non era affatto un anonimo villaggio di pescatori, quando nel lontano 1232 Federico Secondo vi ha fondato una urbs regalis che porta il suo appellativo imperiale. In quel promontorio incuneato fra due porti naturali poteva già esserci un abitato ultra millenario, probabilmente sorto nell’epoca in cui Megara Hyblaea diventava una prospera colonia greca. Lo racconterebbero scavi archeologici in corso nel castello svevo e avvolti da un incomprensibile riserbo, attraverso murature trovate sotto la piazza d’armi. Dopo i primi ritrovamenti di ceramiche risalenti agli inizi del medioevo, dalla trincea aperta nel cortile è saltato fuori un muro in pietra contornato da ceramiche di età romana. Ma andando più a fondo e ampliando i sondaggi con una seconda trincea, sarebbero emersi alcuni blocchi di mura dalle caratteristiche greche. In parte tagliate a suo tempo, per fare spazio alle fondamenta della più grande fortezza costruita dall’imperatore della casata di Svevia. Un manufatto consistente, che fa pensare a una costruzione importante. Forse una torre, per assicurare il controllo militare sulla rada megarese. O addirittura un tempio, per garantirsi la protezione divina. Ma alla Soprintendenza di Siracusa tengono al momento le bocche cucite. La richiesta di dettagli è caduta nel vuoto, e una prossima conferenza stampa per presentare i risultati è solo una voce senza conferme.

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Sondaggi archeologici fino a novembre, poi si apre il cantiere per demolire i piani del carcere.

Il castello svevo con la parte da demolire in alto. Sotto: la tabella del cantiere.

Non è stato nemmeno possibile sapere se, alla luce dei ritrovamenti, sia confermata l’interruzione degli scavi già all’inizio di novembre. Quando gli archeologi dovranno passare la mano alla ditta di Venezia, che si è aggiudicata l’appalto della Regione siciliana per demolire mezzo castello. Cancellando quanto costruito negli ultimi due secoli per adattarlo a penitenziario, allo scopo ultimo di riportarlo alla ristrutturazione seicentesca. Che gli spagnoli avevano realizzata per adeguarlo alle fortificazioni progettate sull’uso delle artiglierie, tagliando pure l’istmo e trasformando il promontorio in un’isola. Nonostante i previsti abbattimenti di sovrastrutture storicizzate abbiano sollevato forti polemiche, l’assessorato regionale ha tenacemente difeso i “restauri” col piccone, per non perdere i finanziamenti e salvarsi dalle penali contrattuali. Al momento è impossibile sapere cosa stia accadendo dietro le mura federiciane. Persino a visitatori istituzionali sarebbe stato fatto divieto di fotografare gli scavi in corso, seguiti da un archeologo pagato dalla ditta appaltatrice, sotto la supervisione settimanale della Soprintendenza. Un arcigno capocantiere veneto vigila affinché nessun giornalista si avvicini per riprendere, sottolineando a più riprese che “glielo sto dicendo con gentilezza”, quasi a far intendere che possano esserci anche modi diversi.

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Le fondamenta sveve attraversano conci squadrati di epoca greca: ipotesi di un tempio megarese.

Megara Hyblaea: tomba monumentale all’ingresso dell’agorà arcaica. Sotto: resti di templi nell’antiquarium.

Quelle mura romane sotto il cortile del vecchio carcere, e quei conci di pietra squadrati che attraversano il pavimento dell’antica cappella, restano quindi indiscrezioni di fonti affidabili senza conferme ufficiali. Sulla natura delle vestigia murarie risalenti alla dominazione di Roma, al momento non ci sarebbe alcuna ipotesi prevalente. Per quelle provvisoriamente ritenute di età greca, invece ce n’è una che sarebbe confortata da ambienti della facoltà di Architettura. Consistenza e orientamento dei blocchi farebbero pensare a un edificio templare con asse rivolto verso Megara Hyblaea, secondo un modello urbanistico che i megaresi sicelioti hanno utilizzato nell’area templare della loro potente colonia di Selinunte. Comunque troppo poco è stato portato alla luce, perché gli studiosi si possano sbilanciare. Ma è pure vero che senza le ipotesi suggestive snobbate dai professori del tempo, Heinrich Schliemann non avrebbe mai trovato Troia e Micene. Inoltre i ritrovamenti al castello svevo sono una sorpresa fino a un certo punto. Vecchi studi conservati negli archivi storici documentano la presenza di tombe dalle apparenti caratteristiche greche, nella parte di terraferma del Rivelino. Sepolture scavate nella pietra oggi scomparse, per le alterazioni geomorfologiche nella costa e per gli interventi umani. Per di più, durante i precedenti scavi sulle pendici del colle in cui sorge il castello, era venuta fuori molta ceramica greca. Indizio di un’intensa frequentazione della zona, che la presenza di un tempio a questo punto potrebbe giustificare, anche se l’esercizio del culto potrebbe non essere l’unica spiegazione dei cocci.

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Suggestione Xifonia, città dei megaresi sopravvissuti a Gelone: citata dalle fonti ma mai ritrovata.

La spiaggetta di sabbia silicica sul golfo Xifonio. Sotto: le pendici del castello.

La presenza di vasi potrebbe riferirsi infatti alla mai trovata Xifonia ma, salvo ritrovamenti fortuiti, servirebbe uno specifico progetto di ricerca. Ne fanno cenno antiche fonti, tuttavia non si è trovato alcun frammento che ne avvalorasse l’esistenza, né tantomeno l’ubicazione nell’odierno centro storico. Augusta si è sempre dovuta “accontentare” di una genesi nella data scelta dal sovrano, che i contemporanei chiamavano Stupor mundi. Però la storia è un orologio che andando avanti nel tempo, spesso lo riavvolge. Negli archivi dell’Ordine domenicano figura la fondazione del convento augustano da parte del beato Reginaldo, discepolo direttamente ordinato dal santo fondatore, già qualche anno prima che apparisse la bolla imperiale per erigere il nuovo castello. Edificato fra l’altro dove c’era memoria di una torre normanna, proprio nel luogo più alto di quella che oggi è un’isola. La fortezza divenne il naturale catalizzatore di un articolato abitato, attraversato da strade e ricco di chiese. Lo hanno trovato i georadar dell’università di Catania alla villa del Milite ignoto, sotto il vasto spiazzo dove si svolgono i concerti dell’estate augustana. E se sotto quel tracciato medievale, così come scoperto adesso nel cortile del carcere, ci fosse qualcosa di ancora più antico? Magari un abitato che attingesse l’acqua dalla mitica fonte “Limpetra“, simile a quella che a Ortigia i siracusani dedicarono alla ninfa Aretusa, circondato dal mare e da terreni acquitrinosi ma in grado di auto-sostenersi. Grazie alla campagna che si stendeva fino a Terravecchia, eloquente toponimo già esistente nelle cronache federiciane, dove c’erano ancora vigneti quando la Marina decise di militarizzarla per costruirci l’Ammiragliato. Popolazione che poteva coltivare i campi grazie alle acque del torrente “Alabo“, che prima di prosciugarsi avrebbe lasciato la spiaggetta al Paradiso, fino a pochi anni fa ancora di silicica sabbia dorata.

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Una metropoli sopravvissuta secoli dopo la distruzione: Federico II fonda Augusta ex novo?

Corteo storico federiciano dove un tempo sorgeva l’abitato medievale. Sotto: le mure ellenistiche nel parco archeologico.

Forse Augusta non è Xifonia, che magari un giorno potrebbe spuntare in qualche altra parte di un territorio denso di storia. Ma dopo i primi ritrovamenti, nella zona del castello ci potrebbe essere qualcosa di più antico e importante, rispetto il supposto villaggio di megaresi scampati alla schiavitù e alle deportazioni. Sull’isola poteva persino esserci un vero quartiere satellite della dirimpettaia metropoli greca, fondata nel VIII secolo avanti Cristo dai megaresi partiti dall’Attica e distrutta nel 483 a.C. dalla potente Siracusa corinzia del tiranno Gelone. Una devastazione che la fece uscire dalle cronache successive, ma non dalla geografia della Sicilia antica. Perché in epoca ellenistica e fino all’età bizantina sopravvisse un centro abitato, all’inizio vivace poi sempre più decadente, fino a scomparire del tutto nel primo medioevo. Era insediato in una modesta frazione dell’antica polis, proprio dove i primi coloni avevano costruito l’agorà con le tombe dei fondatori. E si era dotato delle mura difensive che oggi caratterizzano il parco archeologico di contrada San Cusumano. Una villa agricola romana conservata fra gli impianti petrolchimici della Sasol, insieme alle catacombe cristiane del Marcellino raccontano come la zona fosse ancora molto popolata. Con una densità che difficilmente avrebbe escluso la penisola che chiude a est il golfo megarese.

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“Lo regno della morta gente”, al museo di Siracusa mostra sulla necropoli che ancora stupisce.

La mostra sulla necropoli meridionale di Megara Hyblaea.

Chi oggi visita le rovine trova poche mura a livello di fondazione, insieme ai resti di quello che è ritenuto il più antico impianto termale nel bacino Mediterraneo, e una cinta muraria realizzata quando ormai Megara Hyblaea era un semplice avamposto di Siracusa. “Per secoli le sue pietre sono state asportate e impiegate nelle costruzioni della zona”, spiega Lorenzo Guzzardi, direttore del parco archeologico cointestato con Leontinoi. Ma quella cava all’aperto era una metropoli della sua epoca, decaduta quando i primi logografi hanno iniziato a mettere per iscritto la storia dell’Ellade. A raccontarne l’importanza sono rimasti i reperti strappati alla terra depositata dai millenni, e talvolta all’oblio degli stessi depositi museali. Lo regno della morta genteè l’eloquente citazione dantesca scelta per titolare un’esposizione, che al Paolo Orsi di Siracusa propone una nuova visione sui pezzi trovati nella necropoli meridionale. “Al 90 per cento erano nei magazzini e vengono esposti per la prima volta”, dice l’archeologa Anita Crispino, durante la presentazione dell’8 ottobre. Con lei ci sono i colleghi della scuola francese, René Marie Berard e Nicolas Laubry, che celebra i suoi 75 anni sul sito augustano con l’imminente pubblicazione degli studi sulle sepolture. Dove spesso coabitano resti mortali di greci e popolazioni autoctone, come testimonia un vaso funebre visibile nelle teche di una mostra che dura fino all’8 gennaio. Una prova di quanto ha narrato per primo Tucidide sulla nascita della colonia, circa gli stretti rapporti col potente Hyblon che regnava sulle genti sicule stanziate intorno Pantalica.

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Nave di Gela: mastro d’ascia firma la “garanzia” sulle riparazioni nel cantiere di Megara Hyblaea.

La nave di Gela e, sotto, i madieri firmati dal mastro d’ascia di Megara Hyblaea.

L’esposizione sulla “morta gente” al museo archeologico siracusano si snoda in un percorso circolare intorno al kouros, spettacolare nudo arcaico maschile dove la “modernità” è esplicitata dall’evidente colpo di ruspa, che ha asportato un pezzo di coscia e danneggiato un gluteo. Nella mostra Ulisse in Sicilia, allestita nei mesi scorsi al parco archeologico di Gela intorno al relitto della nave greca, Megara Hyblaea invece ci entra di sponda. Anzi, più esattamente con i madieri. Perché intagliate sulle travi che ancorano il fondo dello scafo alla chiglia, secondo i più recenti studi di paleografia, ci sono le “firme” che appartengono a un mastro d’ascia megarese. Quel panciuto veliero commerciale da 20 metri, la terza imbarcazione più antica finora trovata nel Mediterraneo, faceva cabotaggio fra i principali porti dalla Magna Grecia. Una tempesta lo fece affondare rapidamente intorno il 480 avanti Cristo, davanti il porto costruito dai coloni arrivati da Rodi e Creta. La sabbia lo ha subito ricoperto, conservandolo intatto col suo carico per 2.500 anni. Portava merci di ogni tipo, arrivate dalla madrepatria e raccolte negli empori marittimi dello Jonio. Ma per qualche ragione, durante quei traffici si erano rese necessarie riparazioni all’ossatura che regge la parte sommersa. Un intervento talmente specializzato, che è stato necessario marchiarlo con una certificazione di garanzia, tracciata con la peculiare grafia usata nella colonia che si affacciava sull’odierno porto petrolifero augustano. Tramandando ai posteri la testimonianza di una città assoluta protagonista del suo tempo. Perché allora non verificare se una polis così, fra i tanti che annoverava nella pianura distesa fra Punta Cugno e Melilli, non avesse pure un demo proprio sull’acropoli naturale che gli augustani oggi chiamano “solo” castello?

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Massimo Ciccarello
Giornalista professionista

One thought on “Augusta, scavi top secret al castello trovano mura greche e romane

  1. come tutte le cose che potrebbero dare orgoglio e onore ad augusta non siamo in grado di saperle comprendere e tenere . Lasciamo che siano altri a comandare in casa nostra e demandiamo ogni impegno perchè ciò che conta è l’apparire e diventiamo omertosi pur di non reagire e lottare per i nostri diritti.

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