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Augusta, ormai non c’è santo che tenga: il Covid-19 chiude pure le chiese

Ultimo aggiornamento mercoledì, 3 Marzo, 2021   01:24

AUGUSTA – “La messa è finita, andate in pace”. Quando l’arciprete Palmiro Prisutto e tutti gli altri sacerdoti di Augusta hanno chiuso le funzioni domenicali del 8 marzo, non potevano immaginare che stavano dando l’ultimo saluto liturgico per chissà quanto tempo. Perché da lunedì, insieme a tutte quelle italiane, le loro chiese resteranno aperte solo per un paio di solitari e frettolosi Padre nostro e Ave Maria. Tutte le celebrazioni con “concorso di popolo” sono state invece sospese a tempo indeterminato, compresi funerali e matrimoni. La nota dell’arcivescovo Salvatore Pappalardo, arrivata nella tarda serata, segna un momento che entrerà negli annali della città. Perché, per la prima volta dal dopoguerra, vengono cancellate le popolari manifestazioni di devozione al patriarca San Giuseppe. E, a questo punto, sono in forse anche le processioni della Settimana santa. Comprese quelle, sentitissime, dei due Cristo morto del Venerdì di Passione.

Lo storico Carrabino: non accadeva dai bombardamenti.

Pino Carrabino, presidente Società storia patria.
Copertina, la lapide al forte Vittoria.

“L’ultima volta era accaduto nel secolo scorso, per i bombardamenti degli Alleati, e prima ancora durante il Primo conflitto mondiale“, racconta Pino Carrabino, presidente della Società augustana di Storia patria. Bisogna risalire alla Grande guerra, per trovare un parallelo storico con l’emergenza Coronavirus che sta annichilendo questa trafficata città portuale. “L’epidemia di Spagnola del 1918 falcidiò la popolazione, anche se è difficile fare una conta delle vittime. In quella occasione la gente si riversò in massa nelle chiese, per preghiere e rosari collettivi. E per ricevere una razione di chinino, data a tutti con lo stesso cucchiaio”. Una procedura che oggi fa rabbrividire pure chi non è virologo, insieme agli affollamenti in luoghi chiusi, per quanto “sacri” possano essere. Stavolta la Conferenza episcopale italiana non fa più conto come una volta sui soffitti altissimi delle navate e sull’uso generoso di incenso, per mitigare il pericolo di contagio. Pragmaticamente, si affida alla saggezza popolare del “guardati che Dio ti aiuta”.

Gli asintomatici, la peste e i Lumi della quarantena.

La memoria storica di Carrabino trova altri paralleli col presente nelle cronache del 1743. In quell’epoca segnata dai Lumi, insieme all’esposizione permanente del Santissimo Sacramento nelle chiese si provvide ad attrezzare come lazzaretto i forti spagnoli al centro del porto. Salus populi suprema lex“, campeggia all’ingresso di quello che il viceré Garcia de Toledo intitolò alla moglie Vittoria. E per molti era l’unica spiegazione che ricevevano, sulla ragione del loro confinamento come appestati. Perché l’epidemia che aveva colpito la “zona rossa” di Messina, in quell’anno si era allargata ad Augusta. Che in quest’occasione, con l’isolamento, aveva saputo trarre lezione da quanto era già accaduto nel 1570 e nel 1575, quando la peste si diffuse per aver accolto gli “asintomatici” provenienti dalle città vicine. L’Illuminismo nella scienza medica del Diciottesimo secolo però non contagiò la tradizionale devozione popolare, che pure stavolta si era affidata ai “santuzzi” per essere liberati dall’epidemia. “Le statue del patrono San Domenico, insieme a quelle dei Santi protettori dei quartieri, furono portate alla Matrice“, ricorda ancora lo storico Carrabino.

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L’associazione Icob ha ricostruito una stanza di degenza nell’ex lazzaretto al forte Vittoria

Fu “Spagnola” perché lì non c’era la censura ai giornali.

Il coordinamento contro le epidemie della Protezione civile celeste deve aver funzionato bene, insieme al rigoroso isolamento dei contagiati nei fortini in mezzo al mare, perché solo 175 anni dopo Augusta si sarebbe trovata in un’altra pandemia. La prima della sua storia, e in questi giorni si spera ardentemente che continui a restare pure l’ultima, arrivata dal “Nord” come lo intendiamo ai giorni nostri. L’influenza-killer, il cui ceppo si è definitivamente estinto nel mondo soltanto negli anni ’50, arrivò in città viaggiando insieme ai fanti di ritorno dal fronte austro-ungarico. L’avevano presa nelle trincee del Carso, ma pare l’avesse esportata in Europa il contingente inviato dagli Stati uniti per sostenere la Triplice Intesa. Wikipedia spiega che “all’influenza fu dato il nome di ‘spagnola‘ poiché la sua esistenza fu riportata dapprima soltanto dai giornali spagnoli, in quanto la Spagna non era coinvolta nella prima guerra mondiale e la sua stampa non era soggetta alla censura di guerra; negli altri Paesi, il violento diffondersi dell’influenza fu tenuto nascosto dai mezzi d’informazione, che tendevano a parlarne come di un’epidemia circoscritta alla Spagna, in cui venne colpito anche il re Alfonso XIII“.

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I corsi e ricorsi di una storia che legge presente e futuro.

Forse in questi giorni di paura Covid-19, qualcuno può intravedere uno dei tanti corsi e ricorsi della storia, che l’umanità ha imparato a leggere meglio da quando Giambattista Vico ne ha incentrato parte del suo pensiero filosofico. L’illuminista si spense nella sua Napoli l’anno successivo alla peste augustana. Scrisse che “poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini”. In sostanza, “è stato sempre un tempo e ogni mondo è paese”. La ricerca storica non è fine a sé stessa ma – come validamente fa da due anni la Società di Storia patria – aiuta a comprendere meglio il presente. E a capire dove si sta andando, o dove qualcuno pensa di portarci approfittando del potere che detiene. Due anni dopo la fine della Spagnola, nel pieno della grave crisi economica che si era trascinata dietro, arrivò la marcia su Roma. Passati 6 anni da quell’impresa compiuta mettendo in camicia nera tutti i malcontenti, mancando lo streaming i giornalisti dell’epoca vennero convocati a Palazzo Chigi. E lì si sentirono dire dal Duce che “la stampa più libera del mondo è la stampa italiana: il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime”.

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Cammino: Enti devono una comunicazione trasparente.

A destra, Orazio Mezzio direttore di Cammino con l’arcivescovo Salvatore Pappalardo.

L’emergenza sanitaria di oggi comincia a dare i primi segnali di un pericolo anche per le fondamenta della democrazia. La stampa, e l’informazione che questa garantisce, sono un termometro; che inizia a segnalare un principio di febbre per come vengono trattate durante questa brutta storia del Coronavirus. I responsabili della cosa pubblica impegnati nelle difficili scelte del momento, hanno il dovere di comunicare e agire in maniera chiara e trasparente, pena la credibilità e l’efficacia dei sacrifici imposti. Così facendo le istituzioni perdono di credibilità, i rimedi di efficacia, crescono dubbi ed illazioni, e si alimentano le fake news dei soliti imbecilli che mai nessuna quarantena è mai riuscita ad arrestare”. Lo scrive Cammino, il settimanale di una diocesi che non ha esitato a fermare sentitissime devozioni secolari, pur sapendo “che sono momenti dolorosi per le comunità ecclesiali, come testimonia Carrabino.

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I dubbi sulla censura nascosta dallo scudo emergenza.

Con le chiese chiuse alle omelie, i centri di socializzazione come pub e palestre sbarrati, la stampa locale diventa ancora più vitale come “cane da guardia” della collettività. Perciò inquieta che ad Augusta i giornalisti siano tenuti fuori dalla seduta di venerdì, e inquieta che domenica sera ancora non fosse pubblica la registrazione video di quella sessione. Così come allarma il modo in cui vengono orchestrate certe campagne da ambienti social vicini al Palazzo. Preoccupa che si voglia far passare tutto soltanto dai comunicati ufficiali e dagli uffici stampa. E turbano i dubbi su come vengano registrati alla Protezione civile i ricoveri riconducibili alla nostra provincia, se cioè vengano censiti per la città di residenza dell’ammalato, o per luogo in cui si trova l’ospedale dove viene ricoverato. “A tutti chiedo serenità e fiducia nella Provvidenza, certo di poter confidare nel comune senso di responsabilità”, conclude l’arcivescovo Pappalardo nel suo difficile messaggio domenicale. Ma non si può facilmente essere sereni e fiduciosi se un editorialista del Corriere della Sera come Goffredo Buccini, sul fronte caldo dell’informazione dal cuore della zona rossa, la domenica della #LombardiaChiusa è stato costretto a twittare:“Alla massa di censori della domenica: i giornalisti che ricevono una notizia vera (e lo era) da fonte autorevole (e lo era) hanno il dovere di pubblicare. Se no diventano sensali, ricattatori, trafficanti. E’ parte della democrazia, e ringraziate che lo sia“.

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Massimo Ciccarello
Giornalista professionista

One thought on “Augusta, ormai non c’è santo che tenga: il Covid-19 chiude pure le chiese

  1. …. si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi». Tese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio: sii purificato!». E subito la sua lebbra fu guarita. Poi Gesù gli disse: «Guàrdati bene dal dirlo a qualcuno; va’ invece a mostrarti al sacerdote e presenta l’offerta prescritta da Mosè come testimonianza per loro».

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