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Quando lavarsi le mani non deve diventare una metafora per Lesbo

Ultimo aggiornamento mercoledì, 3 Marzo, 2021   01:19

EDITORIALE – Oggi, 3 marzo, anno domini 2020, di notizie da scrivere su questa città, che consideriamo al centro del mondo solo perché c’abbiamo casa, ne avremmo l’imbarazzo della scelta. Potremmo parlare dell’acqua alla Villa che è ricominciata a uscire torbida, come se quel pozzo dispettoso avesse il singhiozzo e ruttasse il fango che ha inghiottito in oltre 4 mesi di crisi idrica nell’Isola. Potremmo parlare del comunicato dove il candidato sindaco Peppe Di Mare, l’unico finora a metterci la faccia per le comunali del 24 maggio, dice che ha concluso il suo “100 per cento tour” d’ascolto elettori e annuncia il programma che ne tirerà fuori #perAugusta. Potremmo parlare della consigliera grillina Lucia Fichera e del suo “dubbio” espresso in aula su un emendamento per i contadini che coltivano bio, presentato dal collega d’opposizione Giuseppe Schermi, bocciato perché “sembra molto personale” anche se riguardava il punteggio al mercato settimanale, come se questo bancario con master in finanza a Rotterdam e un’azienda di 40 ettari puntasse a montare la sua bancarella ogni martedì, insieme ai campagnoli. Potremmo parlare dell’ennesima ordinanza sindacale sul Coronavirus, e sulla paura di un’epidemia che si è materializzata sotto forma di una tenda-ospedale dalla dubbia capienza in caso di crisi, alzata davanti il Muscatello come se fosse già un campo profughi. E invece, noi della redazione Ecostiera.it ed Error404.online, vogliamo parlare di una foto.

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Sopra e sotto, istantanee dal campo profughi di Moria, agosto 2019.
Copertina, profughi al porto di Mitilene.

L’istantanea non c’entra nulla con tutto ciò che accade nel nostro orticello, dove è facile dimenticare che il mondo lasciato fuori prima o poi viene a bussare alla tua porta. Lo scatto non è nemmeno tanto fresco, risale a circa 6 mesi fa, anche se è tremendamente attuale. Racconta di uomini che condividono il nostro stesso Mare, e forse un giorno il nostro stesso destino, o noi il loro. E’ stato ripreso in un pomeriggio assolato dell’agosto scorso al porto di Mitilene, capoluogo di Lesbo, isola della Grecia che guarda la Turchia dritto negli occhi. Gli stessi occhi coi quali questa famiglia di profughi guarda il traghetto che collega con il Pireo, la terraferma, l’Europa della speranza in una vita migliore, o semplicemente vissuta in santa pace. Gli occhi nella foto non si vedono, l’atavica educazione a considerare la propria immagine come una parte intima gli avrebbe fatto rifiutare l’obiettivo. Però quegli occhi stanno lì, rimasti fanciulli pure in una madre che ne ha viste troppe. Osservano una nave su cui chiunque stia dietro la fotocamera da turista può salire in qualsiasi momento, basta qualche decina di euro. Ma per loro è una chimera, così vicina quasi da poterla toccare, eppure così irraggiungibile come un altro continente. Non serve chiedere chi siano e da dove vengano: sono una mamma coi suoi bambini, e hanno lasciato una casa dove non potevano più vivere. Non serve sapere altro.

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Oggi, ieri, l’altro ieri, e il giorno prima ancora, le agenzie stampa mondiali mandano da Lesbo immagini drammaticamente diverse. Mostrano famiglie come questa mandate allo sbaraglio su gommoni aggrediti da una corrente feroce. Una geopolitica cinica li usa come cavallette umane, per distruggere i terreni fragili di società scosse dalla crisi economica e in preda all’ancestrale paura di un morbo mortale. Gli inviati raccontano che il campo di Moria, dove vengono ammassati, sia diventato un inferno. Lo era già questa estate, e quella antecedente, e quella prima ancora. Minacciosi cartelli ti avvisano che fotografare lì è come violare una zona militare, con le gravi conseguenze del caso. Ma non serve una fotocamera per raccontare di sottili tende biancastre sparpagliate nell’uliveto, accanto ad altri ripari di fortuna fatti con teli di plastica. Anche se dentro non ti faranno mai entrare, “loro” li puoi comunque incontrare fuori. Nei borghi più vicini al campo profughi anche le case e gli orti più modesti sono fortificati con inferriate e rotoli di filo spinato, perché in ogni medaglia c’è sempre un’altra faccia. I più giovani macinano chilometri dopo chilometri a piedi, su strade in mezzo le campagne, per assaporare qualche ora di vita normale in città. Gli altri, donne, anziani, ragazze, bambini, si assiepano su autobus urbani che gli risparmieranno un pezzo di strada, e dove nessuno gli chiede il biglietto.

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Oggi ad Atene ci sono i sovranisti al governo, e le cronache dall’isola raccontano della caccia ai volontari delle Ong per pestarli, di assembramenti sulle banchine portuali per impedire gli sbarchi, di proteste violente da una parte e dall’altra. Ma l’immagine che Mitilene consegnava nell’estate 2019 era quella di due mondi che si accettavano l’un l’altro. “Loro” li incontravi numerosi, a gruppi, il sabato pomeriggio. Li vedevi dare quattro calci a un pallone nella piazzetta con la statua di Saffo, ridere e scherzare come una qualunque comitiva di adolescenti, fare le “vasche” sul lungomare, dove stavano attraccati i pattugliatori guardacoste inviati dalle Marine di mezza Unione europea, compresa l’Italia. E con il battello di una Ong tedesca ormeggiato proprio davanti i tavoli delle taverne al porto, a sfidarli con suo “Mare liberum” impresso cubitale sulla fiancata. C’erano bambini che giravano soli, tollerati dai negozianti e disturbati solo da turisti che volevano comprargli il gelato. C’erano padri di famiglia malmessi che chiedevano l’elemosina trascinandosi dietro bimbi piccoli. Altri con una lenza e le gambe penzoloni sull’acqua, a cercare di rimediare qualche pesce da vendere o mangiare, chi può saperlo. C’erano ragazzine civettuole con aderenti abitini in lycra rimediati chissà dove, indossati su infradito che non ne volevano più; e ragazzini che camminavano scalzi, tenendo in mano le scarpe per non consumarle. E poi c’erano intere famiglie, a prendersi una boccata di normalità e vedere come potrebbe essere se riescono a uscire da lì. Famigliole come quella sorpresa da questa coppia di turisti, che non smettono di essere cronisti curiosi nemmeno in vacanza. Una giovane mamma col velo e i figli a giocare accanto, che nella potente sintesi di una foto rubata è riuscita a trasformare quel canotto rovesciato nella prima fila di un cinema, dove si proiettava Un traghetto chiamato speranza.

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La Ong tedesca “Mare liberum” al porto di Mitilene.
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Massimo Ciccarello
Giornalista professionista

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