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Inchiesta Ias, da inquinamento ambientale risparmi industrie per 24 milioni

AUGUSTA – Quante tonnellate di cancerogeni nell’ambiente sono accettabili, pur di mantenere in vita un posto di lavoro nel Petrolchimico di Priolo? Alla vecchia domanda che l’inchiesta Ias ha nuovamente reso di attualità, non c’è sindacato o politica che finora abbiano dato risposta. Non lo fa nemmeno il sindaco di Augusta, dopo giorni di afonia perché “in questo momento bisogna lavorare in silenzio”. Giuseppe Di Mare prende parola sul sequestro, la sera del 22 giugno, con un video social sull’attività amministrativa. Ma in chiusura affronta il tema ineludibile di un depuratore consortile accusato di disastro ambientale. Parla di “grande fiducia negli organi inquirenti ma grande attenzione per la tutela dei posti di lavoro, che potrebbero portare a un’importante crisi sociale nel nostro territorio”. Dice che “la tutela della salute è invendibile, e non ci sono cose che si possono fare” senza sottrarsi “a quel principio che chi inquina paga”. Ma aggiunge che “in questo momento non bisogna tirare la giacca a nessuno”, perché ci “sarà un processo e delle conseguenze”. Che a prescindere non saranno facili da digerire. Perché quanto ha ricostruito la Procura di Siracusa sul malfunzionamento, getta un’ombra densa sull’inquinamento dell’aria e del mare. Avvenuto consapevolmente per anni, come emerso da verbali e perizie dello stesso Consiglio di amministrazione. Composto da soci pubblici e privati, che allo stesso tempo sono i clienti dell’impianto priolese. I quali sapevano dei rischi per lavoratori e popolazioni dell’hinterland. Ma sono andati avanti lo stesso per non pregiudicare le attività legate alla raffinazione, sulle quali si regge l’intera economia dell’area.

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Di Mare rompe il silenzio: facciamo lavorare i competenti, troveranno verità e soluzioni.

da destra: Giuseppe Di Mare col direttore di Sasol, Sergio Corso

“Facciamo lavorare le persone competenti: troveranno una soluzione e porteranno alla luce la verità di come stanno le cose”, conclude Di Mare nel suo intervento sulla questione. Ma una prima “verità” sostanziale, al netto delle eventuali responsabilità penali che dovranno accertare i tre gradi di giudizio, emerge già dall’ordinanza emessa dal gip Andrea Palmieri il 12 maggio. Sono 111 pagine consegnate alla storia di un Petrolchimico che non ha mai smesso di subordinare l’ambiente al business, neanche quando i rischi alla salute hanno portato all’adozione di norme stringenti sulle emissioni. Aggirate con tutti i crismi di legge, attraverso Autorizzazioni integrate ambientali che i pm hanno ritenuto “del tutto illegittime“. Perché rilasciate alle aziende in virtù di una specifica depurazione, che l’impianto di Priolo in realtà non era in grado di assicurare. “Limiti inderogabili” che gli stabilimenti superavano con contratti di utenza, sui quali caricavano gli inquinanti in eccesso affidandoli a un trattamento che sapevano essere impossibile. Se non altro perché sedevano nello stesso Cda dove la problematica veniva ripetutamente messa a verbale. Da anni.

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Deodorizzazione mai avviato per errore progettazione: idrocarburi sottostimati 800 volte.

Lo stesso Ias operava con un’autorizzazione della Regione decaduta dal 2015, espressamente vincolata a un impianto di deodorizzazione mai realmente entrato in funzione. Perché il professore di ingegneria sanitaria ambientale incaricato dalla Spa, aveva accertato che “non era stato progettato su dati corretti, in quanto il contributo degli idrocarburi era stato sottovalutato di 800 volte“. Il verbale del Cda datato maggio 2014 ammette che “ciò ha condotto alla totale inefficienza dell’impianto stesso”. Anche la stessa autorizzazione scaduta, secondo i consulenti della Procura, faceva ricorso a un escamotage per restare formalmente nei limiti di legge. “La diluizione è il principale stratagemma mediante il quale riesce a rispettare i valori limite di scarico in mare“. Solo che, rispetto ai reflui civili di Priolo e Melilli, quelli di natura industriale erano “il 70/80 per cento del totale”. Per i pm questi dovevano essere trattati autonomamente, prima di essere mischiati. Il conteggio degli idrocarburi in eccesso immessi nell’ambiente, nei solo quinquennio 2016-2020, si avvicina a 2.300 tonnellate. E supera le 2.400 “se si considera l’effetto delle diluizione dei reflui civili“. Inquinanti sversati a un chilometro e 700 metri dalla costa, da una condotta a 35 metri di profondità fra Augusta e Siracusa, “soggetti all’andamento delle correnti e rendendoli disponibili alla fauna acquaticain una zona molto pescosa.

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Poche analisi sui reflui oleosi che evaporano tonnellate di composti cancerogeni.

sopra e copertina, il depuratore consortile di Priolo.

Sono altrettanto circostanziate le accuse riguardo le puzze originate dall’Ias. Si riferiscono ai composti più leggeri della cosiddetta fognatura oleosa“, che richiedono controlli “periodici e frequenti” tanto in partenza quanto in arrivo, perché facilmente soggetti a evaporazione. Invece, “le analisi di controllo acquisite presso il laboratorio interno sono risultate poco frequenti, e con set analitici non esaustivi”. La conclusione dei periti è che l’impianto priolese “genera costantemente emissioni inquinanti in atmosfera, senza alcun controllo da parte del soggetto gestore”. Eppure si tratta di Composti organici volatili, alcuni cancerogeni e altri pericolosi“. Le quantità rilevate dalle strumentazioni piazzate per condurre l’inchiesta giudiziaria, hanno tirato fuori le quantità immesse ogni anno nell’aria. Si tratta di 13,6 tonnellate di benzene, 9,8 tonnellate di toluene, 11,3 tonnellate di xileni, 7,4 tonnellate di idrogeno solforato, 42,8 tonnellate dei rimanenti Cov.

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Emissioni benzene 13 volte quello autorizzato e il giallo dei fanghi mancanti.

Per rendere più chiara l’entità dell’inquinamento, i consulenti della Procura hanno accertato che in una vasca di trattamento “la quantità di benzene emesso risulta quasi pari a 13 volte quello autorizzato“, mentre in un’altra l’immissione in atmosfera è “pari a 2,6 volte”. Ai periti dell’accusa non tornano nemmeno i conti riguardo i fanghi, carichi di contaminanti. Accertano una loro “diminuzione nella produzione senza che ci sia stata una correlabile diminuzione nelle portate di reflui d’ingresso impianto, sia in termini quantitativi che qualitativi”. Dove sono finiti? Forse lo dirà il dibattito processuale. Intanto dalle relazioni peritali emerge che “i reflui contenenti idrocarburi, per i quali non è previsto un trattamento specifico volto ad abbattere il carico inquinante, confluiscono al depuratore insieme ai reflui di natura civile. Non vi è quindi una effettiva depurazione degli idrocarburi prodotti dalle società petrolifere, piuttosto una diluizione e un’evaporazione degli stessi dalla superficie delle vasche”. A rendere tutto più paradossale è che “oltre alle consulenze disposte dalla Procura, in atti vi sono anche le relazioni degli esperti nominati dalla stessa società Ias nel corso degli anni, e che sono giunti a conclusioni sostanzialmente corrispondenti”. I pm hanno calcolato che il risparmio realizzato dalle aziende grazie ai “mini trattamenti” del depuratore, e alle Aia compiacenti, ammonta a 24 milioni di euro. Sicuramente molto più di quanto serve per largheggiare in greenwhashing e assunzioni.

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Massimo Ciccarello
Giornalista professionista

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