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Pippo Amara è scomparso: Augusta chiude l’epoca politica del ‘900

Ultimo aggiornamento martedì, 21 Novembre, 2023   10:17

AUGUSTA – E’ stato il “grande vecchio” della politica di Augusta, il paravento di ogni candidato “alternativo” perché senza solidi programmi elettorali, l’alibi di ogni amministrazione in difficoltà a rispettare le promesse, il padre di un “Sistema” poi perfezionato in famiglia ed esportato in tutta Italia. Con Pippo Amara scompare dalla scena un protagonista indiscusso della Prima Repubblica, e il convitato di pietra della Seconda. Il 18 novembre se n’é andato il precursore dell’istrionismo come metodo applicato per la ricerca del consenso, l’antesignano del politico che si costruisce come personaggio prima ancora di proporsi come amministratore, il pioniere della comunicazione politica confezionata come uno show. Nei suoi 85 anni di vita intensamente vissuti e sempre alla ribalta, il padre dell’ex avvocato Piero che poi l’avrebbe ampiamente superato, è stato tantissime cose. Tutte messe sapientemente a frutto: sindaco, assessore, presidente del consorzio Asi, signore e padrone del potente Partito socialista augustano quando Bettino Craxi dominava la scena italiana. Una figura intorno alla quale e senza la quale è impossibile decifrare le vicende augustane di fine Novecento, una presenza sempre più cercata quanto più ingombrante diventava, l’ispiratore di leggende metropolitane che lasciavano intatto il dubbio su quanto ci fosse di storia vera. Il primo pomeriggio del 20 novembre, al Sacro Cuore, non si tiene solo il funerale di un anziano geologo ed ex docente alle superiori: si celebra soprattutto il requiem di una stagione dove il Comune era un porto delle nebbie.

I funerali nella sua parrocchia sono il requiem simbolico di un’era cancellata da Tangentopoli.

Alle 15,30, nella parrocchia della Borgata, si canta il de profundis di un’epoca politica dove al municipio c’erano i “protocolli aperti“, per retrodatare gli atti fatti a posteriori. Dove c’erano complesse e scabrose pratiche edilizie, che risultavano formalmente depositate solo il giorno prima la data della loro approvazione. Dove un’istanza necessitava inviarla a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, senza busta ma auto-sigillata per avere certezza formale di presentazione. Dove l’ambientalista ante-litteram Giacinto Franco, nell’aula consiliare che oggi porta il suo nome, denunciava delibere approvate in consiglio con un contenuto, che negli uffici comunali poi subivano una misteriosa mutazione, conservando dell’originale solo la “camicia” esterna ma non il contenuto, peraltro battuto con una macchina da scrivere diversa. Un metodo del quale quasi tutti quelli passati dalla stanza dei bottoni, ai tempi del pentapartito nazionale, prima o poi hanno pacificamente usufruito. Alla bisogna, accollandone poi la paternità a chi – grazie al “sentito dire” – era il capro espiatorio perfetto.

Lo scontro con la pm Pietroiusti e il primo divieto di dimora adottato emesso a un politico.

sopra e sotto, Pippo Amara.
(foto cortesia Webmarte).

Infatti quando l’eccesso di clientelismo e affarismo debordava nell’indignazione popolare, ai tempi in cui la battaglia di legalità arrivava dal Msi e da qualche anima bella della sinistra Dc, con l’opposizione del Pci dura ma a corrente alternata, per gli “imputati” innanzi al tribunale dell’opinione pubblica c’era sempre pronta la madre di tutti gli alibi:“…Pippo Amara”. Così, con i puntini di sospensione del detto e non detto, come il confetto Falqui, che nel Carosello garantiva l’evacuazione dell’indigeribile già evocandone la parola. E quasi sempre non c’entrava, perché semmai ci fosse entrato, se ne sarebbero guardati bene dal tirarlo in ballo. Prestante, carismatico, attento alla forma fisica, passava intere mattinate in bicicletta e macinava chilometri di corsa. Ogni tanto però inciampava in qualche inchiesta giudiziaria, soprattutto quando alcuni refoli milanesi di Tangentopoli si spingono a queste latitudini, portati dalla magistrata Angela Pietroiusti. Intercettato, e sicuramente consapevole di esserlo, nella cornetta della Sip non si inibiva a esprimere il suo schietto giudizio sulla onorabilità della giudice. Forse grazie a quelle telefonate politicamente scorrette (i giudizi di Berlusconi sulla Merkel sarebbero arrivati molto dopo), l’augustano divenne il primo politico sottoposto al divieto di dimora, fino ad allora applicato solo ai pregiudicati più pericolosi. Alla fine fu praticamente un simbolico e breve fastidio, piuttosto che un allontanamento dalla scena locale, ovviato con la residenza spostata pochi metri oltre il confine comunale, vicino l’attuale Città della notte. Poi è finito tutto in una bolla di sapone processuale, come la ventina di vicende giudiziarie in cui era stato più o meno coinvolto. Una sola è diventata verità giudiziaria, con una condanna per aver “redarguito” la presidente della commissione edilizia, irrompendo durante la seduta dove era in agenda una sua pratica.

L’ultimo comizio al Monumento, poi non si è più riempito così per una manifestazione elettorale.

Con Craxi latitante ad Hammamet, e la potente Democrazia cristiana vaporizzata in irrilevanti mini sigle, i partiti-totem tramontano anche ad Augusta. Tutto cambia. Non basta più la riconoscenza dei tanti raccomandati che si racconta avesse allocato, né l’aura popolare che lo ritiene miliardario eppure esente dal bisogno di pagare il caffè, una prestazione, un servizio. Quella fascinazione, infondata come tutte le vulgate, non attecchisce più quando il rampantismo della Seconda repubblica porta alla ribalta volti e promesse all’insegna del rinnovamento“. Ma Pippo Amara si è sempre fatto da solo, e anche stavolta non si sottrae alla sfida. Le cronache della sua ultima campagna elettorale raccontano di un comizio, convocato con gli altoparlanti sulle macchine a girare per giorni, promettendo rivelazioni bomba su un tentativo di corruzione registrato con un microfono nascosto. Alla fine il contenuto del nastro era meno di un petardo, ma il boom lo fece ugualmente riempiendo il Monumento all’inverosimile. Nessuna manifestazione politica avrebbe più portato tutta quella gente.

Il ritiro dal voto quando la satira di un collettivo giovanile ha rotto il tabù su un potente.

Il gran finale di chi è stato sempre sulla scena, però, non può non essere un coup de théâtre. Proprio la sera che prelude al silenzio elettorale, in via Umberto, nell’isola pedonale davanti il Banco di Sicilia, durante l’ora di punta s’incatena a una sedia con le mani legate dietro, e si fa imbavagliare. Non risponde a nessuno, nemmeno ai giornalisti, lasciando il compito di spiegare il gesto ai suoi candidati nella lista civica sponsorizzata. Protesta perché gli è stato vietato di replicare il comizio show della villa, “con altre scottanti registrazioni”, tappando la bocca alla sua campagna elettorale “per la pulizia morale e il rinnovamento del Comune“. Solo che accade qualcosa ritenuta impensabile appena qualche anno prima, contro un potente che incuteva simpatia e timore allo stesso tempo. Pochi minuti dopo essersi clamorosamente messo il bavaglio e legato col lucchetto, alcune decine di metri alla sue spalle, uno degli studenti del collettivo di sinistra lo imita. Appendendosi però un irridente cartello con la scritta u figghiu“, che strappa una spontanea risata a chiunque passi, nemesi di un potere ormai impudentemente ridicolizzato. Sarà la sua ultima performance, prima di spostarsi definitivamente dietro le quinte, a tessere le fila ancora per un bel pezzo. Quel voto infatti è deludente, ma pesa soprattutto la consapevolezza di un “suo” tempo che ormai non tornerà più. Anche se quel tempo ancora sembra non passare mai.

Massimo Ciccarello
Giornalista professionista

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